Dopo l'anteprima in concorso alla Mostra del cinema di Venezia e l'uscita nelle sale italiane, Gianfranco Rosi sta accompagnando il suo nuovo film «Notturno» in un denso tour attraverso la Penisola, con la consapevolezza che «in questo momento è importante impegnarsi per riportare il pubblico al cinema». Così, il regista che nel 2013 vinse proprio a Venezia il Leone d'oro con l'altro documentario, «Sacro Gra», sarà stasera a Napoli, al cinema Modernissimo, per incontrare il pubblico dopo la proiezione delle 20.30. «E spero di avere di fronte una sala piena, perché in giro noto ancora troppo timore», aggiunge, «nel ritornare a guardare un film sul grande schermo. Perciò, anche se è stancante, accompagno il mio film ovunque posso, per offrire agli spettatori un motivo in più per venire al cinema». In «Notturno», Rosi racconta la quotidianità che si cela dietro la tragedia senza fine del Medio Oriente e delle sue genti, tra guerre civili, dittature feroci, invasioni, ingerenze straniere e le atrocità dell'Isis.
Rosi, a Venezia lei è tornato sette anni dopo la conquista del Leone d'oro, in un'edizione che ha sancito la ripartenza dei grandi festival «in presenza». Che esperienza ha vissuto al Lido?
«Posso dire di aver provato una grande emozione, anche perché il mio film l'ho visto per la prima volta su grande schermo proprio alla Mostra. Notturno sarebbe dovuto andare in concorso a Cannes, ma quando il festival francese è stato annullato per la pandemia, sono stato felice di ritornare al Lido per far parte della kermesse della rinascita del cinema in sala. Da parte mia, mi sto battendo affinché riaprano le porte delle sale cinematografiche e per questo sto sostenendo come posso il tour del film».
«Notturno» narra la tragedia del Medio Oriente squassato dalle guerre in modo poetico e originale. Com'è nato un simile approccio?
«L'intuizione originale del film si rifà al mio modo di lavoro ricorrente, che parte sempre da un'immersione totale nei luoghi e tra l'umanità che intendo raccontare. Ho trascorso tre anni in Libano, Siria, Iraq e nel Kurdistan iracheno, per calarmi completamente in quella realtà e riuscire a conoscere a fondo le persone che poi avrei coinvolto nella mia narrazione. Soltanto così avrei potuto davvero raccontare quei luoghi, oggetto di tante incomprensioni e altrettanti pregiudizi, in modo inedito. Durante quei tre anni, poi, ovviamente la mia visione si è evoluta, come sempre accade, poiché io non parto mai con idee precostituite e con i miei film non intendo mai dare risposte agli spettatori, bensì provare a immergerli a loro volta nella materia narrativa, proprio come se dovessero affrontare un viaggio».
Nel film, lei gioca molto col concetto di frontiera e mantiene la guerra combattuta lontano dall'obiettivo della macchina da presa. Come mai questa scelta?
«Perché, in realtà, ho cercato di raccontare la quotidianità di chi vive lungo il confine che separa la vita dall'inferno. Sono rimasto volutamente lontano dalla linea del fronte, dove la guerra è gestita dal potere, per raccontare invece quei luoghi nei quali arriva l'onda lunga, l'eco della guerra stessa, se ne sente la presenza opprimente sulla quotidianità di uomini, donne e bambini ai quali viene impedito di proiettarsi nel futuro. A me interessava portare a galla le loro storie lungo confini che diventano autentici stati mentali. Ho voluto superare il concetto di frontiera e la sua stessa percezione, anche perché le popolazioni locali percepiscono storicamente le frontiere come altrettanti tradimenti, poiché esse vengono costantemente ridefinite a seconda delle esigenze politiche, stimolando spesso odio e vendetta».
«Notturno» è un film di luce oltre che di tenebre. Come ha messo in relazione tra loro questi due elementi?
«Prima di partire col progetto, immaginavo che avrei filmato soltanto scene notturne, per immergere nell'oscurità i protagonisti, me stesso e gli spettatori e comunicare così il senso della nostra ignoranza. Già dopo i sopralluoghi, però, ho sentito che era giusto abbandonare questa idea, poiché il mio è un film di luce e non di tenebre, col quale racconto la stupefacente forza vitale delle persone, senza cercare di analizzare le enormi contraddizioni di quelle aree del mondo, ma semplicemente provando a cantarle, quasi come in un Notturno di Chopin. Così, nel buio, l'occhio man mano si adatta e inizia a riconoscere le forme, mentre l'oscurità si trasforma in penombra e poi in luce, ma sempre ovattata. La luce per me è una dimensione narrativa e un elemento di puro cinema che, come il tempo e la durata, mi piace modificare per catturare più che la bellezza lo splendore del vero».