Oscar Wars, quelle lotte di potere tra artisti fino all'ultimo respiro

Oscar Wars, quelle lotte di potere tra artisti fino all'ultimo respiro
di Andrea Palazzo
Sabato 11 Marzo 2023, 16:14 - Ultimo agg. 18:53
4 Minuti di Lettura

“E’ come una corsa di cavalli ma, soprattutto, un’orgia auto-celebrativa di gente ricca e famosa che si prende troppo sul serio”. A poche ore dalla cerimonia degli Academy, Michael Schulman, giornalista del New Yorker, descrive l’evento più scintillante di Hollywood nel suo “Oscar wars” pubblicato negli Usa da Harper. “Una lotta continua tra chi detiene il potere e chi va all’assalto della cittadella dorata” raccontata dall’autore attraverso i riflessi della statuetta che Bette Davis battezzò Oscar: “il sedere sembra quello del mio ex”. “E’ un mondo costruito sull’egocentrismo e l’insicurezza -aggiunge Schulman-, gli artisti hanno bisogno di continue rassicurazioni: che c’è di meglio di un premio?”. La cerimonia serve anche a far risonare i temi più controversi che attraversano cinema e società. L’ideologia del politicamente corretto deve molto all’infilata di premi a sordomuti (Figlio di un Dio minore), paraplegici (Il mio piede sinistro), autistici (Rain Man) nativi Usa (Balla coi lupi) e omosessuali (Philadelphia).

L’Academy era nata nel ’27 in risposta agli scandali che avrebbero ispirato Babylon e per consolidare il suo potere emarginava i talenti più eccentrici.

Nell’anno di Quarto Potere, Orson Welles venne ostracizzato perché pretendeva autonomia dagli Studio e malgrado 11 nomination ottenne un solo Oscar. Fu messo al bando fino alla sua morte.

Con l’avvento della Tv, gli Oscar si aprirono al cinema della controcultura per sopravvivere. Nel 1970 vinse un film vietato ai minori, Un uomo da marciapiede e tra le attrici arrivò la radical chic Jane Fonda, che salutava col pugno chiuso vestita Chanel, parlando apertamente di sesso: “Il sistema opprime le donne e le mette in vendita come merci”. John Wayne sentenziò: “Sono un attore americano e recito con i vestiti addosso”.

Nei ’90 le lotte di potere diventavano sempre più dure e il produttore Harvey Weinstein ne divenne il campione. Tanti italiani beneficiarono del suo appoggio: da Tornatore al Postino, a Salvatores (rimontò Mediterraneo per farlo vincere) e Benigni. Per Weinstein - oggi in prigione per stupro - non bastava promuovere un film, si doveva andare contro l’avversario spendendo fiumi di dollari. Gwyneth Paltrow continuò a lavorare con lui anche dopo le molestie subite e vinse con Shakespeare in Love, che rubò la statuetta persino a Salvate il soldato Ryan di Spielberg.

Schulman ricorda come la campagna #OscarsSoWhite sia servita all’Academy per rincorrere i cambiamenti culturali, malgrado l’incidente della busta sbagliata che al posto dell’afroamericano Moonlight annunciò la vittoria al bianchissimo La La Land. Secondo l’autore: “rispetto alle crisi passate, le incognite ora sono maggiori. Mancano i grandi film mainstream come Forrest Gump, al cinema funziona solo la Marvel e gli indipendenti si vedono in streaming sul pc o sul telefonino”. “Io sono grande, lo schermo si è fatto piccolo”, recitava la star di Viale del Tramonto, ma nessuno immaginava che lo schermo sarebbe diventato così piccolo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA