Pupi Avati: «Dante il sogno di tutta la vita»

Pupi Avati: «Dante il sogno di tutta la vita»
di Titta Fiore
Giovedì 22 Settembre 2022, 07:47
5 Minuti di Lettura

Per Pupi Avati «Dante» è il film della vita. E non solo perché lo ha inseguito e studiato per vent'anni, ma perché nel racconto del sommo poeta e del suo tempo ha messo molto di sé: la sua passione per la bellezza, la sua ammirazione per il talento, il suo amore per l'amore. La sua capacità di scandagliare i personaggi nei piccoli gesti e nelle grandi aspirazioni. Dice: «A scuola ce lo hanno fatto odiare e hanno fatto di tutto per rendercelo distante. Ho sempre pensato che andasse risarcito».

Prodotto da DueA con Rai Cinema, nelle sale dal 29 settembre, il film sceglie un punto di vista originale per affrontare la biografia dell'Alighieri: parte, cioè, dal viaggio avventuroso che Giovanni Boccaccio intraprese dopo la morte in esilio di Dante nel 1321, per portare alla figlia del poeta, Beatrice, monaca a Ravenna, dieci fiorini d'oro da parte di Firenze in segno di risarcimento per l'ingiusta condanna. Ma in Boccaccio, profondo ammiratore del genio dantesco, quell'incarico diventa l'occasione per svolgere un'indagine su Dante per narrarne la vicenda umana e le ingiustizie patite. Sullo sfondo di un Medioevo aspro e realistico, ricostruito con una sguardo fedele agli affreschi nelle scene e nelle atmosfere, Sergio Castellitto è Boccaccio, Alessandro Sperduti il giovane Dante, Carlotta Gamba Beatrice. Nel cast importante e corale anche Mariano Rigillo, Leopoldo Mastelloni, Milena Vukotic, Alessandro Haber, Enrico Lo Verso, Valeria D'Obici, Paolo Graziosi, Eliana Miglio, Erica Blanc e Gianni Cavina alla sua ultima e toccante interpretazione.

Gli italiani trascurano la grandezza di Dante?
«Incredibilmente, sì.

Ma per senso di inadeguatezza. La scuola, soprattutto quella dei miei tempi, ci ha fatto sentire la sua dismisura poetica come irraggiungibile. Inspiegabile. Anche le celebrazioni per i settecento anni dalla morte sono state troppo pompieristiche, con le bande, il tricolore, la politica, contribuendo a tenerlo sul piedistallo. Io invece ho cercato di raccontare il ragazzo che è stato. Di capire la chiave del suo sconfinato talento».

Quale?
«La sublimazione del dolore. Nella famiglia Alighieri non c'erano intellettuali, erano tutti usurai e piccoli commercianti. Improvvisamente, in un bambino di cinque anni che perde la mamma, fiorisce una scintilla miracolosa grazie al mistero del dolore. Nessuno aveva portato sullo schermo la sua storia. Credo di aver alzato l'asticella con un film di poesia di grande ambizione, ma il cinema italiano deve tornare ad essere un po' ambizioso».

Sul tema ha scritto anche un romanzo, «L'alta fantasia».
«A farmi intravedere la possibilità di raccontare un essere umano ineffabile qual era l'Alighieri è stata la scoperta della missione di Boccaccio. Senza quel viaggio, non avrei mai avuto il coraggio di affrontare Dante. Boccaccio fu il suo primo biografo e il più appassionato divulgatore: copiò tre volte a mano la Commedia e La vita nova, fece l'impossibile per far sì che Dante uscisse dal buio dell'esilio».

Ha voluto raccontarlo giovane, immerso nelle pulsioni e nelle contraddizioni della vita quotidiana.
«Non c'era una biografia di Dante che ci facesse capire i suoi sentimenti, ho cercato di indagare in questa direzione. Lo vediamo combattere, amare le donne, perfino defecare. Lo vediamo nella sua umanità e nei suoi chiaroscuri. Entra in politica perché è pieno di debiti, tradisce l'amico Guido, insomma, non era un santo».

Vent'anni di studi sulla sua biografia: cosa ha scoperto?
«Oggi sono un dantista dilettante con una maggiore consapevolezza. Pieno di riconoscenza per la bellezza commovente della Vita nova. Mi sono riconosciuto in quel testo che parla dell'innamorarsi per sempre. È il modo della mia generazione. Noi ci innamoravamo tutte le volte per sempre, ci credevamo ed era magnifico».

A chi si rivolge il film?
«Spero che lo vedano i giovani e i meno giovani. La gente non sa chi era Dante, il film dà molte informazioni senza annoiare, non a caso già ce lo chiedono tante università. Io e mio fratello Antonio abbiamo fatto sempre un cinema alternativo, senza inseguire le mode. Questo è il più esplicito, si rifà alla classicità della settima arte, anche come impegno produttivo. È la nostra scommessa più grande».

Il presidente Mattarella lo ha visto in anteprima.
«Alla fine mi ha abbracciato e mi ha detto che era un capolavoro. Mi sono messo a piangere. Dante è un film sull'Italia e su un grande italiano. Parla di argomenti alti e ce n'è bisogno, soprattutto in un momento in cui le parti, pur di vincere, sarebbero pronte a qualsiasi bassezza».

Ha mai pensato di mettere in scena la «Divina Commedia»?
«Mai, sarebbe inutile e dannoso. La Divina Commedia è un testo sacro, un'opera risolta in se stessa. Non ha bisogno di essere illustrata più di quanto abbia già fatto magnificamente Doré».

Sulla bravura di Sergio Castellitto non c'è bisogno di aggiungere parole. Come ha scelto i giovani Dante/Sperduti e Beatrice/Gamba?
«Per Beatrice cercavo una ragazza che avesse uno sguardo speciale, consapevole. Vedevo tante barbie californiane, poi si è presentata Carlotta Gamba e lei quello sguardo meraviglioso ce l'ha. Alessandro Sperduti aveva già fatto due film con me. Ha una sensibilità enorme, senza anticorpi. Porta nelle scene un'emozione fortissima, non le recita, le vive».

Alla fine, cosa le ha regalato questo viaggio in compagnia di Dante?
«Una grande lezione di vita. Quando cerco degli alibi alla mia inefficienza, penso a lui che è riuscito a portare a termine il suo capolavoro in condizioni di estrema povertà. Al confronto, nessuno può darsi giustificazioni. Però, mentre giravo questo film così difficile, non mi sono mai sentito solo. Ho avuto la sensazione che fosse giusto farlo. Che non dovevo avere paura».
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA