Salvatores: «L'Italia del lockdown tra solidarietà e rabbia»

Salvatores: «L'Italia del lockdown tra solidarietà e rabbia»
di Titta Fiore
Domenica 25 Ottobre 2020, 09:26
4 Minuti di Lettura

«Fuori era primavera», lo struggente documentario di Gabriele Salvatores realizzato con le immagini dei video girati dagli italiani nei mesi del lockdown, arriva alla Festa di Roma, ma il suo autore non ci sarà: il regista premio Oscar è in isolamento domiciliare a Milano, positivo al Covid. È asintomatico, sta bene e aspetta con serenità di lasciarsi questo brutto momento alle spalle: «Noi napoletani - dice sorridendo - abbiamo la pellaccia dura». Come aveva già fatto ai tempi di «Italy in a Day», anche in questo docufilm prodotto da Indiana e Rai Cinema (domani in sala come evento speciale e poi su un canale Rai), ha dato voce a un sentimento collettivo, mostrando le paure e le speranze, lo sperdimento, il coraggio e l'ironia di un popolo di fronte a una prova enorme e imprevista.

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Com'è l'Italia che decide di rappresentarsi in «Fuori era primavera», Salvatores?
«La prima cosa che mi viene in mente è che, se lo avessimo fatto oggi, il film sarebbe molto diverso. Durante il lockdown c'era anche ottimismo, c'erano condivisione, solidarietà, e si cantava sui balconi per sentirsi più vicini: questo soprattutto emerge dalle immagini che abbiamo montato. Oggi temo che non vedremmo le stesse scene. La gente è stanca e demotivata e ha perso fiducia nel governo, non sa quando potrà tornare alla vita normale, quando e come arriverà un vaccino... Temo molto la rabbia sociale, anticipata in maniera profetica da film come Joker».


Da autore, che cosa le resta di questa esperienza?
«Ho capito il valore delle piccole storie che appartengono alla quotidianità delle persone. Non è necessario raccontare storie pazzesche, l'importante è che siano sincere. L'altro aspetto che mi ha colpito è che, a furia di armeggiare con i cellulari, gli italiani hanno imparato a filmare».


Confrontarsi con il vissuto della gente ha cambiato il suo sguardo sui tempi che stiamo vivendo?
«Non a caso il documentario è senza finale: nell'ultima immagine si vede una barchetta in mezzo al mare e non sappiamo dove arriverà.

Ecco la sensazione: di fronte al virus siamo tutti sulla stessa barca. Io sono stato attentissimo, con mascherina fissa sul set del mio nuovo film, Comedians, eppure il primo giorno di montaggio mi sono contagiato. Quindi smettiamola di essere arroganti, non siamo noi il centro del mondo. Nessuno è invulnerabile».


Le prime sequenze sono dedicate alla natura e all'ambiente sulle note di «Noi non ci saremo» di Guccini. Perché?
«Sono le uniche immagini arbitrarie del film, ma ci tenevo ad esprimere il mio pensiero. Sono convinto che i cambiamenti climatici, le deforestazioni, le coltivazioni intensive e un certo tipo di globalizzazione violenta abbiano favorito la diffusione del virus. Sarebbe bello che imparassimo qualcosa da questa prova terribile, ma purtroppo non succederà. All'inizio ero ottimista, ora lo sono molto meno. Continueremo a mettere il denaro davanti a tutto».


In che cosa spera?
«Che gli italiani abbiano ancora voglia di considerarsi protagonisti della storia del loro paese. E riescano a ritrovare il senso della solidarietà. Per questo mi arrabbio con i negazionisti e con quei politici che decidono secondo logiche di partito e non nell'interesse comune. Chi si permette di mandare in giro messaggi sbagliati dovrebbe essere punito».


È anche un problema di comunicazione, secondo lei?
«La comunicazione di chi si assume responsabilità collettive deve essere chiara e netta. Se sei un politico dovresti dare il buon esempio, diceva mio padre. Ma spesso non accade. E una comunicazione poco lineare e lucida, in certi casi, è il male peggiore».


Ha affidato il filo rosso del documentario a un «rider» sottopagato.
«Perché sono sempre i deboli a pagare il prezzo più alto. Mi vengono le lacrime agli occhi guardando gli homeless in strada, la gente in coda alle mense comuni. Quel buffone di Boris Johnson aveva perfino ipotizzato che la morte dei vecchi per la pandemia avrebbe alleggerito la spesa dei sussidi statali. Io, invece, penso che il simbolo giusto per i tempi che viviamo sia l'iniziativa napoletana del paniere sospeso: chi ha metta, chi non ha prenda. Dovremmo comportarci tutti così».

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