«Il sindaco del Rione Sanità» di Martone e il sacrificio dell'ultima cena

«Il sindaco del Rione Sanità» di Martone e il sacrificio dell'ultima cena
di Giuseppe Montesano
Venerdì 30 Agosto 2019, 13:30
4 Minuti di Lettura
Il rapper Ralph P. scandisce «È inutile ca ve sfiacchite, tanto nun facimm' niente 'e nuovo, sto esaurito pecché nun veco niente 'e nuovo...», si spara nel buio come in una serie sulla camorra, la scena si illumina su un appartamento-gabbia di cristallo, un medico opera sul tavolo del salone, e entra in scena un trentenne con la felpa in stile Gomorra che si mette a fare ginnastica e poi comincia a giudicare la lite tra i due guagliune secondo la sua giustizia, che non è quella dei tribunali ma quella di Antonio Barracano: è così che si apre «Il sindaco del rione Sanità» di Eduardo con la regia di Mario Martone e gli attori del Nest di San Giovanni a Teduccio, e siamo subito senza appigli, nel nuovo.

Che cosa è successo alla storia del camorrista al crepuscolo che ha deciso di amministrare la giustizia per chi «non tiene santi», ovvero per chi non può comprarsi la giustizia con la corruzione ma è un escluso che sta ai margini, nell'illegalità? In questo Eduardo tutti sono diventati giovani e giovanissimi, sono stretti in giubbotti di pelle e accentano il dialetto con i suoni delle Scampie universali: in una messa in scena in cui il postmoderno delle Gomorre si getta alla caccia di Eduardo, e lo insegue, e lo azzanna, finché per scosse successive, in una sorta di cortocircuito, Eduardo ferito comincia a divorare le Gomorre, le digerisce e diventa sorprendente. Il momento chiave del «Sindaco del rione Sanità» è quando dal mediatore Barracano si presenta Rafiluccio Santaniello, figlio del padrone di panetterie Arturo Santaniello, e confessa che vuole uccidere il padre che lo ha scacciato da casa costringendolo a sopravvivere nella miseria con la fidanzata Rita che porta in grembo un figlio: Barracano riconosce nell'odio che il figlio porta al padre l'odio che ha portato lui stesso ragazzo a diventare un assassino conficcandolo nel ruolo del criminale, e si ribella al circolo vizioso dell'ingiustizia che vuole il sangue pagato col sangue: fino alla conclusione in cui, colpito a morte da Arturo Santaniello, Barracano decide di non reagire, e di morire facendo dire che ha avuto un attacco di cuore, perché solo così si potrà, forse, chissà, interrompere la catena della vendetta.

La scena finale del «Sindaco del rione Sanità» è un'ultima cena in cui Barracano, per non perpetuare la faida sacrificale, sacrifica se stesso incrinando la sua immagine di potere, e muore come un Cristo in mezzo ai fedeli, agli incerti e ai traditori. La giustizia personale dell'anti-società che Barracano ha perseguito come soluzione è l'opposto speculare della giustizia corrotta della società, e oppone un disastro a un altro disastro, ma il sacrificio di Barracano è una domanda che lascia aperta una possibilità: sostituire il perdono alla vendetta. E questo «Sindaco del rione Sanità» si sospende qui, moltiplicando l'ambiguità eduardiana: rispondere non tocca al teatro, tocca allo spettatore.

Ma c'è davvero tutto questo in Eduardo? Non solo c'è, ma nelle mani di Martone e dei suoi attori tutto questo si è visto sulla scena come per la prima volta, senza Eduardo attore a velare la violenza di Eduardo scrittore: senza riscritture, con qualche taglio, Martone ha fatto emergere l'ingenuità epica che il testo di Eduardo contiene, e ha fatto dell'irrealtà da apologo che lo regge un sistema teatrale che abbandona il naturalismo spettacolarizzato delle Gomorre televisive e entra in un paradossale brechtismo post-postmoderno. Ma questo può accadere, nella piccola sala del Nest, una palestra abbandonata che la volontà di alcuni attori e registi ha trasformato in un teatro come luogo collettivo in cui coltivare oasi in mezzo al degrado, perché gli attori del Nest hanno accettato la sfida, e hanno lottato corpo a corpo con Eduardo. Con il ritmo del Barracano di Francesco Di Leva, veloce e scheggiato nel fraseggio di improvvisi passaggi dalla violenza alla tenerezza contrapposto al ritmo più netto, sconfortato e lucido, del Della Ragione di Giovanni Ludeno, e al ritmo di stolte certezze, sotterraneamente maligno e falso dell'Arturo Santaniello di Massimiliano Gallo, tutti e tre dentro una recitazione anti-naturalistica coscientissima di star mettendo in scena un apologo e non una tranche de vie, in una concertazione di ritmi assecondata dai languori adolescenti della Rita di Lucienne Perreca, dall'ingenuità ferita del Rafiluccio di Salvatore Presutto, dall'ombrosa segretezza dell'Armida di Daniela Ioia, dal candore infinito dell'Immacolata di Viviana Cangiano, e poi da quel miscuglio di ingenuità e sbruffoneria che agita Adriano Pantaleo, Giuseppe Gaudino, Gennaro Di Colandrea, Mimmo Esposito, Ralph P. e la piccola Morena Di Leva, tutti che sembrano appena sbucati dalla realtà realissima della grande periferia malata di Napoli e però pronti a smontare i suoi stereotipi.

E sia resa lode a Carolina Rosi, erede del lascito di Eduardo e Luca De Filippo, che ha permesso che si lavorasse su Eduardo come su Molière o Strindberg, senza imbalsamarlo. Servillo ha portato Eduardo nel Contemporaneo attraverso la filologia, ma superandola trasformando le nevrosi implicite del personaggio Eduardo in nevrosi contemporanee, come quando Glenn Gould tirava fuori dal Bach classico l'anticlassico; Martone porta Eduardo nel Contemporaneo con una rilettura del sistema teatrale eduardiano, trasponendone la drammaturgia in una sintassi che rende possibile una musica nuova, avventurata su un terreno dissonante: e chi scrive qui spera che siamo solo agli inizi. Insomma è venuto il tempo per il teatro di Eduardo di diventare un autentico classico: qualcosa che chi viene dopo deve continuamente fare a pezzi e ricomporre, non per distruggerlo, ma per farlo vivere.