Venezia
La sorpresa sul tappeto rosso è Hillary Clinton, scortata dai sorrisoni dei ministri Franceschini e Brunetta. Ospite con la sua associazione no-profit per la partnership femminile del premio Dvf Awards che Diane von Furstenberg assegna alle donne di talento (quest'anno anche la presidente della Banca Centrale Christine Lagarde), l'ex first lady e Segretario di Stato americano non ha perso l'occasione di affacciarsi alla Mostra che si è appena «gemellata» con il board degli Oscar, perché una passerella ben illuminata non si diserta mai, soprattutto se c'è in ballo una buona causa. Dal bunker di Kiev si è collegato il presidente ucraino Zelensky, come aveva già fatto a Cannes, elencando in una dolorosa Spoon River i nomi dei tanti bambini morti sotto le bombe russe, una strage degli innocenti compiuta da «macellai, terroristi, assassini»: «Il vero pericolo è abituarsi alla guerra, rassegnarsi alla guerra, dimenticarla». La cronaca preme con i suoi drammi, ruba la scena e il cinema le dà voce in uno spazio di libertà che il festival coltiva da novant'anni, da quando nel 1932 fu fondato dal conte Volpi di Misurata per rilanciare il Lido e costruire intorno a quell'arte adolescente un solido sistema artistico e industriale.
Lo dicono in modi diversi anche le protagoniste del galà di ieri sera, la leonessa Catherine Deneuve, premiata alla carriera, e le presidenti della giuria del Concorso, Julianne Moore, e di Orizzonti, Isabelle Coixet. «Quando ci fermiamo un momento a guardare il nostro passato sembra che tutto sia stato deciso prima, ma non è affatto così» dice la diva francese che ai tempi del loro amore Marcello Mastroianni chiamava con rispetto antico «la mia signora». «Le cose del passato dipendono da un buon grado di fortuna come da buone e cattive decisioni dagli esiti imprevedibili».
Julianne Moore, che nel 2014 ha vinto un Oscar con «Still Alice», ora dovrà guidare le scelte del gruppo di cineasti incaricati di assegnare i premi maggiori: «Non avrei mai pensato di far parte della giuria di Venezia, tantomeno di presiederla» racconta, avvolta in una cappa di velo variopinto. «La mia prima volta al Lido è stata nel 1986, ero solo un'attrice di soap. Come mi regolerò? Punterò sulle storie che mi faranno battere velocemente il cuore». Non è preoccupata del futuro della sala né per la concorrenza delle piattaforme: «È la tecnologia che avanza, l'arte e la capacità di narrare restano al centro di tutto e lo saranno per sempre».
Sul red carpet finalmente libero dalle barriere anti-Covid sono tornate ad affollarsi top model e influencer, ma quando arriva René-Jean Page, il duca di «Bridgerton», non ce n'è per nessuno. Per applaudire il film di apertura, «White Noise», è arrivato da Los Angeles il capo di Netflix Ted Sarandos. In mezzo alla folla urlante di fotografi e fan sgrana gli occhi Glory Kevin, la protagonista nigeriana di «Princess» che ha aperto la sezione Orizzonti (nel cast anche Lino Musella e Salvatore Striano). Il regista Roberto De Paolis l'ha incontrata che si prostituiva nella pineta di Ostia, schiava sessuale sotto ricatto delle «madame». Il cinema le ha letteralmente cambiato la vita. «Rappresento le tante ragazze nere africane che hanno come me questo vissuto in strada, voglio dimostrare che abbiamo talento e possiamo fare altro. L'Italia è un bel posto, se hai un sogno lo puoi realizzare, puoi andare a scuola, imparare una professione. In Nigeria non è così». Glory ha 25 anni e una bambina di 6 che tutti coccolano: «Dio mi ha aiutato tantissimo, mi ha fatto superare tanti momenti difficili e mi ha dato una figlia che ha dato una svolta alla mia esistenza».