Dario Fo, il premio Nobel del 1997: «Un giullare autentico»

Dario Fo, il premio Nobel del 1997: «Un giullare autentico»
di Renato Minore
Giovedì 13 Ottobre 2016, 13:46
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Anche quel dieci ottobre del 1997 gli accademici di Stoccolma non avevano smentito il loro geniale eclettismo, quella totale disponibilità che ogni anno fa notizia e polemica nel villaggio globale,come non avviene per nessun altro evento letterario. In appena dodici mesi erano passati dall’aristocratica e auratica invisibilità della poetessa polacca Wislawa Szymborska alla comunicabilità piena e popolare del jongleur. Dal loro cilindro era uscito il clown, ìl fool, il giullare, il pazzo del Carnevale, Dario Fo. E la motivazione sottolineava anzi enfatizzava, questo aspetto parlando «del buffone nel senso più autentico della parola. Con una miscela di risate e serietà, egli apre i nostri occhi sugli abusi e le ingiustizie nella società». Infine: «La forza di Fo consiste nel creare testi che simultaneamente divertono,sono impegnati e indicano una prospettiva. Come nella commedia dell'arte, sono sempre aperti ad aggiunte creative e rimaneggiamenti,incoraggiano gli attori a improvvisare,il che significa che il pubblico viene sollecitato in modo notevole». Trionfava un clown, «nel senso più nobile e autentico della parola» emblematico testimone del teatro contemporaneo. Un autentico protagonista della scena che era stato, e continuava essere improvvisatore mimo e incantatore.

La sua drammaturgia si era sempre appoggiata a una comunicazione intensa di autentica visceralità, con il pubblico si era trasformata in vera partecipazione corale specie nei momenti caldi identificabili con gli appigli e gli inesorabili spunti suggeriti dalla realtà sociale così turbinosa. Una messa in scena volutamente "contemporanea" che aveva scelto i misteri medioevali in base ai possibili riflessi politici, forzando i procedimenti di attualizzazione nell'individuare i referenti e la materia scelta. Sempre pronta, comica,blasfema, vitalissima. Le tappe principali di questa continua e operosissima macchina di prodigalità teatrale sono fissate in testi famosi come Gli arcangeli non giocano a flipper, Isabella tre caravelle e un cacciaballe, Ci ragiono e ci canto, Mistero buffò, Morte accidentale di un anarchico, IL Fanfani rapito,La storia di un soldato, L'opera dello sghignazzo .Prendiamo come test, tra la produzione maggiore, Il Mistero buffo del 1969. Tutti abbiamo nella memoria, grazie anche alla fortuna televisiva della pièce, l'istrione e superattore che, in modo vitale e affascinante, recupera un filone del teatro popolare, protestatario, maturato nei secoli all'ombra del teatro ufficiale.

Ovvero del potere da cui vuole distinguersi anche per l'uso dissacrante del dialetto e delle sua creaturale forza linguistica.
E' il Fo che si muove con straordinaria agilità di rifacitore nel repertorio comico, da Plauto alla commedia dell'arte fino ai meccanismi della pochade, del giallo, della farsa, del cabaret. Dentro questa gabbia che egli ha manipolato sapendo con Bergson che si ottiene la frase comica inscrivendo «l'idea assurda in un modello di frase stereotipata», la sua scrittura non è mai una vera scrittura. E' piuttosto una «costruzione del testo teatrale, un'impalcatura di fondo dentro cui scivolano tutte le componenti dello spettacolo: la scenografia,la regia, la recitazione. Su questa traccia insieme così solida e cosi elastica, il giullare si è sempre imposto con quell'irrisione dei potenti e quell'omaggio alla forza degli umili che cosi singolarmente aveva abbagliato gli accademici svedesi.
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