Joumana Haddad, tra poesia e lotta civile: «Anch'io sono stata distrutta come L'Aquila»

Joumana Haddad, tra poesia e lotta civile: «Anch'io sono stata distrutta come L'Aquila»
di Renato Minore
Venerdì 16 Dicembre 2016, 22:14 - Ultimo agg. 19 Dicembre, 17:52
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Scrivere poesie, dice Joumana Haddad, è come “scrivere con le unghie dentro, scavare dentro, nonostante il dolore, le ferite, la paura, i dubbi, il buio. Scavare nella carne della carne dell’anima. Nella carne della carne del corpo. Nella carne della carne dell’immaginario”. Joumana Haddad è in Italia dove ha ricevuto il premio internazionale "L'Aquila - Bper Banca". Dopo Adonis, Walkott, Takano, Strand, Simic, Evtusenko, Ben Jelloun, Blandiana, Vaghenas, Darvish è stata lei, una delle più importanti poetesse arabe contemporanea e forse la più conosciuta e affermata, a essere festeggiata nella città abruzzese per la quindicesima edizione del premio. Responsabile delle pagine culturali del più importante quotidiano del suo paese, poetessa tradotta in molte lingue, vincitrice dell’Arab Press Prize, traduttrice raffinatissima e poliglotta, Haddad parla sette lingue, tra le quali l'italiano che ha imparato a quattordici anni, dopo l’autentico choc che le ha procurato la lettura di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” di Pavese, “l’amore per quei versi ha trascinato il mio desiderio di conoscere la lingua che così misteriosamente mi risuonava e mi catturava”.

Nel segno della poesia nei due incontri a Onna e all’Aquila che vivono ancora le profonde ferite del terremoto, la sua presenza e la lettura dei suoi versi hanno racchiuso il percorso di una rinascita, un messaggio di speranza: “ Anch’io sono stata una terra distrutta, dentro. E ho lavorato tanto per ricostruirmi”, dice Haddad. E la sua “ricostruzione” è stata quella della donna, della poetessa, della giornalista dal libero pensiero, granitica combattente per i diritti femminili che sempre si è mossa ”nell’esercizio dell’inquietudine, e nella disciplina della ricerca, l’inquietudine come motore di vita, e la ricerca come un perseguimento palpabile di me stessa, cioè del mondo, del ‘tutto’, attraverso la cellula più piccola, più insignificante, dell’io”. Così non ha fatto sconto a nessuno. Non ha fatto sconti ai maschi, alla loro violenza, all’insensibilità stupida e ottusa”, e alle donne smascherando complici delle loro discriminazioni contro le donne nell’educazione dei figli maschi”. Non ha fatto sconto agli arabi denunziando “il loro integralismo e i loro cliché, la barbarie delle loro teocrazie” e al Libano combattendo lo stereotipo che “ne fa un angolo di liberalismo e denunciando i diritti delle donne e delle madri continuamente violati”.

La poesia è stata per lei il nucleo fondativo, il momento germinale intorno a cui si sono organizzate le altre pratiche di scrittura e di azione, le molte altre che hanno formato l’identità della giornalista, della traduttrice, della saggista, della polemista. La poesia è stata il cuore, il centro vitale dentro cui rifluivano e prendevano forma e struttura i pensieri, le idee le emozioni, i sentimenti. La poesia. Cioè(dice ancora Haddad) “scavare per scoprire cosa c’è sotto, non per arrivare alla fine di un tunnel. Scavare con l’impazienza di una golosa, con la sensualità di un’impudica, con l’umiltà di una perdente, e con la spietatezza di una criminale”.

Questo il senso profondo del “Ritorno di Lilith”, la sua raccolta più importante (L’asino d’oro edizioni) che ruota intorno alla figura mitologica della prima sposa di Adamo, ribelle, mai sottomessa all’uomo: “Una donna che è l’essenza, la vita, la sensualità, la forza. E per questo fa paura. Perché è viva. E si ama, ama se stessa, non nel senso egoistico del termine, ma amore inteso come rispetto di sé”, spiega ancora Haddad. E quelle di Lilith (ha ben scritto Lello Voce che ha introdotto un altro suo libro, “Adrenalina” presso le edizioni del Leone) sono parole scomode e a volte crudeli, ma avvolgenti, vibranti; parole dai significati e dalle forme capaci di essere sempre là dove il lettore meno si aspetta che siano, impreviste e imprevedibili, taglienti, decisive, graffianti, ma anche sensuali, calde, avvolgenti. Leggere quei versi significa fare i conti con lo stupore del dolore e con la spudoratezza del piacere, con la strozzatura della disperazione e con il respiro della speranza. Per Haddad poesia è sinonimo di passione, di rischio, di conoscenza e di intenso erotismo.

Ma se a Joumana Haddad chiedi cosa può significare essere oggi Lilith, in un mondo come il nostro e in particolare in un paese come il suo Libano, lei non ha dubbi : significa, prima di tutto “ fare la scelta di dire ‘no’, anzi, di ruggire ‘no’, ma anche ‘sì’, quando ci va di dire sì. Rifiutare i limiti che ci sono imposti da altri, sfidare il terrorismo invisibile praticato dal mainstream, e osare trasgredire le censure e i tabù di ogni tipo: religiosi, politici, sociali, culturali.”

E ci sembra di sentire ancora risuonare i versi finali del poema “Donna” che Haddan ha letto nell’auditorium aquilano con passione, ma anche essenziale, sobria allo spasimo, pronta all'affondo che chiede silenzio, e con grande coinvolgimento da parte di chi l’ascoltava:“Hanno costruito per me una gabbia affinché la mia libertà/ fosse una loro concessione/e ringraziassi e obbedissi./Ma io sono libera prima e dopo di loro,/con loro e senza loro/sono libera nella vittoria e nella sconfitta./La mia prigione è la mia volontà!/La chiave della mia prigione è la loro lingua/ma la loro lingua si avvinghia intorno alle dita del mio desiderio/e il mio desiderio non riusciranno mai a domare”.
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