Achille Lauro lancia Bam bam twist: «Come Quentin Tarantino, poi cambio la musica»

Achille Lauro lancia Bam bam twist: «Come Quentin Tarantino, poi cambio la musica»
di Andrea Spinelli
Venerdì 10 Luglio 2020, 12:00
6 Minuti di Lettura

«Bam bam twist» è il singolo con cui Achille Lauro è appena tornato a colorare ritmi e miti degli anni Sessanta, centrando l'attenzione nell'estate della pandemia: sui social al momento non si parla d'altro. Vuoi per il clamore della scelta, vuoi per il video interpretato da Claudio Santamaria e dalla moglie Francesca Barra strizzando l'occhio al Vincent Vega e alla Mia Wallace interpretati rispettivamente da John Travolta e da Uma Thurman in «Pulp fiction». E questo con buona pace delle pretese hit col nome da aperitivo che affollano il mercato della canzone balneare. «Viviamo in un'epoca in cui il brano dell'estate è fatto con lo stampino di quello dell'anno prima, ma a me non interessa entrare nel campionato del singolo da spiaggia e mojito, faccio la mia musica e basta» mette avanti le mani lui, Lauro De Marinis, 30 anni domani, passato nei mesi scorsi dalla sanremese «Me ne frego» a «16 marzo». «In questa stagione, però, le persone vogliono svagarsi e così ho pensato di recuperare in Bam bam twist un sound iconico, a cui nessuno sembra più pensare, ma che a me invece racconta anni felici, di boom economico e di grandi aspettative. A pensarci bene pure questo del post-Covid-19, in fondo, è un dopoguerra».



E la videocitazione di «Pulp fiction»?
«Beh, il riff di chitarra anni Settanta è molto tarantiniano. Mi sembrava giusto dare a Bam bam twist un tono mainstream ma da cult. All'inizio avevo pensato di ballarlo io il videoclip, poi ho pensato che un John Travolta italiano l'abbiamo ed è Claudio Santamaria. Così ho preferito lasciare la scena a lui e a sua moglie limitandomi a fare il cantante del locale».

Ha spostato il tour «Achille Idol: Immortale» da ottobre 2020 a ottobre 2021. E in mezzo che farà?
«Il finimondo. I fans sono avvertiti. Ho già bene a fuoco tutto quel che succederà. Il lockdown mi ha tagliato fuori dal mondo in un b&b romano. Ci ho costruito dentro uno studio e ho registrato diverse cose tra cui l'ultimo singolo. Anche buona parte del mio libro è nata in quel contesto perché durante l'isolamento ho scritto così tanto da avere gli spunti per 300 canzoni. Il libro si è praticamente scritto da solo. Quando lavoro ad una canzone riempio 4-5 pagine di idee da cui estrapolo poi i concetti migliori. In 16 marzo. L'ultima notte ci sono tante pagine di me che invece di diventare una canzone sono diventate un libro».

Quindi arriverà un album.
«Ad essere sinceri ne avrei tre: uno supersperimentale, strambo, due che già reputo i miei album più belli. Uno dei due potrebbe essere l'album della vita».

Confermarsi è più difficile che fare colpo. Soddisfatto del suo Sanremo?
«Sì, perché Me ne frego si è rivelata più influente di Rolls Royce. Un anno fa ha giocato l'effetto novità, questo l'effetto stupore. La canzone non è solo quello che senti, ma pure quel che vedi, l'immaginario che ti scatena dentro. Un po' come capita coi videoclip. Fin dalla copertina l'artista crea attorno al suo disco un mondo; e tutto diventa proiezione di quello che aveva in testa al momento in cui ha prodotto certe cose».

Ma a Sanremo (e non solo lì) le hanno dato del prodotto di marketing.
«La mia musica è da vedere, oltre che da sentire. E tutta l'operazione Me ne frego è stata frutto della creatività mia e del mio staff sposata da una casa di moda. Per questo è una str**ata pensare che si è trattato di un'operazione Gucci, come ho letto da più parti. Volevo solo portare all'Ariston lo spirito dei miei live».

In tour mica va in scena «arredato» da regina Elisabetta
«Come no? In concerto a Roma ho indossato, ad esempio, un costume-tributo a Renato Zero perché vivo la musica come il teatro. Se una grande casa di moda mi fa l'onore di credere in quel che propongo non posso che essere orgoglioso. Da qui a dire che sono un prodotto di marketing ce ne passa».

Il personaggio e l'artista a volte gettano il pubblico in confusione.
«Nel mio libro spiego come il successo non sia arrivato dai tre minuti di Rolls Royce a Sanremo, ma dall'abbandonare tutto. Dallo spogliarsi dal proprio passato per andare incontro a qualcosa di nuovo. Proprio come la metafora di San Francesco utilizzata al Festival per rispecchiare quella che per me è una filosofia di vita».

Però lei delle ricchezze del pop non s'è spogliato.
«Sarebbe ipocrita dire che il successo non ne genera, ma la scelta di lasciare quello che ero per mettermi in cerca di quel che sarò la trovo tanto onesta quanto coraggiosa. Anche perché l'anima e la voglia di cercare sono sempre le stesse di quando ero un ragazzino senza ancora una strada da percorrere».

Dice che è sugli inciampi che si costruiscono i successi.
«Sì e io ne ho avuti. Non ho problemi a dire che sono cresciuto in una periferia romana dove la droga esiste ed è un grosso problema da combattere, ma quando vieni a dire che Rolls Royce è un inno alla pasticca omonima mi metto a ridere».

Beh, c'era anche il precedente dell'album «Dio c'è», che sui muri di quella periferia di cui parla diventa spesso l'acronimo di «Droga In Offerta: Costi Economici».
«Tutti i miei dischi hanno diversi livelli di lettura. Il fatto artistico sta anche in questo. So benissimo che quell'espressione si porta dietro un immaginario dark, ma in quel disco per me rappresentava un grido liberatorio dopo aver firmato il mio primo contratto discografico con una multinazionale. Avrei potuto chiamarlo Dio, grazie, ma poi ho puntato su un titolo che si prestasse a più interpretazioni».

Sicuro?
«Ho sempre detto di essere cresciuto in questo mondo, ma non di essere un drogato. Proprio perché ci sono stato vicino so che quella me**a è pericolosa e farne l'apologia è l'ultima delle mie intenzioni».

Nonno prefetto e papà eminente avvocato di diritto del lavoro, come la mettiamo con l'immagine del ragazzo dalla faccia tatuata cresciuto ai bordi di periferia?
«La mia storia non è iniziata sei anni fa, col mio primo disco, e sono contentissimo di avere un padre arrivato ad essere giudice di Cassazione non per carriera, ma per meriti insigni. Il nostro rapporto è stato discontinuo e a tratti difficile, però mi ha dato modo lo stesso di toccare con mano la frustrazione dello studioso che avrebbe potuto raggiungere risultati anche più alti se solo avesse accettato il compromesso di entrare a far parte di certe caste sempre evitate. Quella sua inquietudine me la sono sempre portata dietro. E se alla fine lui è arrivato alla Corte e io, dopo tante vicissitudini, qui dove sono ora è forse il segno che alla fine nella vita le cose magari si aggiustano».

Come si vede tra dieci anni?
«Mi sembra di essere sulla buona strada per riuscire ad unire generazioni diverse, quindi la speranza è quella di continuare a fare sempre la mia musica e magari riempire gli stadi.

Dormo ancora 4 ore a notte come dieci anni fa, ma non per andarmene in giro, quanto a lavorare per lasciare cose che possano piacere a ragazzi dai 14 ai 60 anni».

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