Alan Sorrenti: «Dopo l'album il docufilm: storia di un figlio delle stelle»

Il ritorno del cantante napoletano

Alan Sorrenti: «Dopo l'album il docufilm: storia di un figlio delle stelle»
di Federico Vacalebre
Domenica 20 Novembre 2022, 09:33
5 Minuti di Lettura

Alan Sorrenti ha 71 anni, ha inciso un album dopo 19 anni e non è mai stato così sulla cresta dell'onda dai tempi di «Figli delle stelle». «Oltre la zona sicura» l'ha riproiettato in pieno «hype», al centro della scena musicale, tra la nostalgia dei suoi coetanei e l'eccitazione, ben più confortante, dei giovani che lo acclamano come il padrino del nu soul-funky italiano, del revival italo-disco. Il produttore Stefano Ceri, già al fianco di Mahmood e Salmo, Frah Quintale e Franco 126, si era avvicinato a lui rileggendo, con Tatum Rush, proprio «Figlie delle stelle». A quel punto l'incontro tra i due è stato inevitabile, il primo singolo «Giovani per sempre» ha celebrato una sintonia sorprendente tra i due, poi «Oltre la zona sicura» si è riempito di suggestioni come «Pura vida», «Luce magica», «Greta» (dedicato alla Thunberg), «Naufraghi in fiamme», tra elettronica, dancefloor, neopsichedelia e una voce per sempre memore delle radici progressive rock e degli esperimenti di Tim Buckley e Shawn Phillips.

Quale era, Alan, la confort zone del titolo?
«Io, a dir la verità, non mi sono mai adagiato nelle certezze, ho sempre sperimentato.

Ero progressive nell'Italia dei papaveri e papere, al tempo di Dicitencello vuje ho messo le mani su un classico napoletano quando nessuno lo faceva, con Sienteme ho usato il napoletano quando non era più lingua della canzone, con Figli delle stelle sono passato dai festival del proletariato giovanile all'America che voleva ballare. Però il titolo, più che a me, allude al mondo che verrà, costretto - dalla pandemia, dalle tante guerre, dall'insensato assalto all'ecosistema - a cambiare passo: a scegliere che cosa vuole fare. Nel mio giubbotto ho fatto incidere uno slogan letto in strada: Non abbiamo un pianeta B».

Suoni e messaggi sembrano più in sintonia con la generazione Z che con i tuoi coetanei.
«Di sicuro a me interessano i giovani. Nei suoni come nella vita di tutti i giorni, nella politica se vogliamo chiamarla così. Mi ritrovo nei Nu Genea, gli ho rubato un pezzo di band anche se per adesso ho rinviato il mio tour, e loro dicono di ritrovarsi in me. E non è la nostalgia a muoversi verso la voglia di raccontarmi in un docufilm».

Un docufilm?
«Sì, l'ho in testa da tempo, ma lo rimandavo sempre. Ora c'è l'interessamento di una produzione e mi devo mettere a scrivere. Ho raccolto materiali, immagini, storie della mia storia, ma vorrei tenere insieme la memoria e il futuro, raccontare la mia vita, ma anche la mia testa, da cui sono passate tutte le storie da raccontare, anche quelle invisibili».

Domani riceverai il Premio Carosone per aver rinnovato la canzone napoletana con «Dicitencello vuje».
«Era un azzardo, Peppino Di Capri aveva reso la melodia classica pop, Roberto Murolo la riprendeva in purezza acustica, io sperimentavo, dissacravo, proiettavo le radici verso il futuro. Non a caso quello fu il passaggio verso la scrittura di Sienteme, l'uso del dialetto come lingua contemporanea, non legata al passato».

Poi venne la svolta ancor più radicale di Los Angeles, di «Figli delle stelle», il megasuccesso. E le critiche di chi, nel Movimento come tra gli ascoltatori, si sentiva tradito.
«Le mie cose prog avevano creato una comunità, capisco che potessi creare scompiglio cambiando. Come capisco che una platea politicizzata non gradisse un nuovo americano di Napoli. Ma io in Africa avevo scoperto il ritmo e a Los Angeles come usarlo nella mia musica».

«Siamo figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro»: ti fecero male quei versi di Battiato?
«No, ma non me lo aspettavo da lui. Con Claudio Rocchi e Franco eravamo i cantautori della scena progressive, ci incontravamo in un negozi per strumenti elettronici. Mi sorprese, forse io sorpresi lui, non ci siamo mai chiariti, parlati, peccato».

Eppure vi univano l'approdo alla forma canzone, l'approdo mainstream dopo gli inizi avantgarde, l'interesse per le religioni....
«I miei primi dischi sono cosmogonie come Figli delle stelle, si riprenda in mano Aria e Come un vecchio incensiere all'alba in un villaggio deserto. C'è un filo rosso che li collega. Purtroppo a volte la militanza ci rende ciechi. Con la scoperta del ritmo puntavo a liberare il mio corpo, i corpi di chi mi ascoltava: anche quello era un obiettivo rivoluzionario».

Non era facile capirlo allora.
«È vero, c'erano le stragi di stato, gli opposti estremismi, il terrorismo, la lotta armata. A Los Angeles vidi e sentii altro, trovai una città che mi adottò, come la Milano anni della moda, del Divina, un locale gay in anticipo sui tempi. Ora punto a tornare a Napoli, a fare, di nuovo, i conti con le mie radici».

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