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Alan Sorrenti: «I figli delle stelle ballano ancora ma con filosofia»

di Federico Vacalebre
Articolo riservato agli abbonati
Domenica 10 Luglio 2022, 09:34 - Ultimo agg. : 18:13
4 Minuti di Lettura

Ieri come oggi: c'è chi lo celebra per il cinquantesimo anniversario del suo primo album, «Aria», classico del prog rock italiano. E chi, plaudendo al suo ritorno con i singoli «Giovani per sempre» e «Oggi», lo ha eletto a padrino del neofunky all'italiana, applaudendolo come se fosse Liberato o i Nu Genea.

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Allora, Alan, pronto per l'album?
«Sì, l'ho chiuso, mi sono tolto anche lo sfizio di fare una bella copertina come una volta, visto che uscirà anche in vinile, in autunno. Ma prima ci sono i singoli, sembra quasi di essere tornati negli anni 70, con i 45 giri, anche se non c'è più il disco fisico, con il buco in mezzo. Io appartengo a un'altra storia, credo ancora all'unità dell'lp, come si diceva una volta, ma capisco che bisogna avvertire il pubblico di quello che stai facendo, cercare di colpirlo mentre è bombardato da milioni di altri messaggi».

Per il videoclip di «Giovani per sempre» sei diventato un cartone animato. Il suono è retromodernista.
«Parte, in qualche modo, dal Marvin Gaye di What's going on, poi Stefano Ceri, il produttore che ho cercato per attualizzare le mie idee, lo porta nel presente. In fondo, non solo il suono, ma anche la filosofia del brano, come anche di Oggi, riprende quella di Figli delle stelle. Oggi siamo e vogliamo essere giovani per sempre, vivere nell'oggi e non nel passato, ma dobbiamo conquistare una responsabilità che non abbiamo, capire che l'unico cambiamento possibile, l'unica rivoluzione da inseguire è quella interiore».

Qui si sente il Sorrenti buddhista.
«La spiritualità è una parte importante di me. Mi piace condire di contenuti, pur leggeri, il mio funky-pop-soul. Mi piace rivolgermi ai giovani, che sembrano avermi (ri)scoperto. Io guardo al loro mondo con curiosità, con interesse, anche se mi sembra descrivano e cantino una situazione senza sbocco».

Ma chi sono oggi i figli delle stelle?
«Eravamo viaggiatori, sognatori, oggi siamo reduci che si guardano attorno per capire dove stiamo andando. Ma ci sono i nuovi figli delle stelle, responsabili proprio come noi eravamo irresponsabili».

Parli della nu funky generation che ti ha applaudito al «Mi ami», festival milanese di culti, dopo una versione di «Figli delle stelle» durata oltre sette minuti?
«Bello il funky della nuova generazione, dentro mi ci trovo a mio agio».

È una maniera anche per vendicarsi dei famosi fischi del «Festival del proletariato giovanile» di Licola nel 1975?
«In qualche modo sì, ma io quei fischi li ho capiti, forse avevo esagerato con la sperimentazione vocale, ma erano soprattutto un atto d'amore. Il pubblico voleva l'Alan dei primi due dischi, Aria e Come un vecchio incensiere all'alba in un villaggio deserto, si ritrovava in quell'avanguardia prog, nell'ideologia politica che sentiva sottesa e io lo stavo tradendo. Cantavo Dicitencello vuje in un'epoca in cui la canzone napoletana era considerata reazionaria, non importa che la rileggessi in modo psichedelico».

Insomma ti successe quello che capitò al Dylan «elettrico» del festival di Newport del 1965.
«Mamma mia che paragone, ma sì. Oggi pensare che qualcuno contesti un artista per amore, perché lo vorrebbe fedele a quanto fatto finora può sembrare impossibile, ma in quei tempi c'era passione nell'aria, militanza, partecipazione».

Ma anche impreparazione: la disco music, pur proletaria per definizione, era osteggiata per partito preso, roba da «pronipoti di sua maestà il denaro» per dirla con Battiato.
«Sì. Io avevo deciso che volevo rivolgermi ad una platea più ampia, ma non certo pensando ai soldi. Dicitencello vuje entrò in classifica, io studiavo al Dams e Roberto Leydi mi suggerì di andare a cercare il mio suono in Africa. Lo feci, in Senegal, registrai quello che dovevo registrare e ne tornai cambiato, il ritmo era diventato il mio verbo».

Così arrivò «Sienteme», registrato a Londra.
«Poi partii per l'America. Prima New York, poi finalmente San Francisco, la California era la mia terra promessa, quindi Los Angeles».

E il «tradimento» fu completato.
«Siamo nel 1978, Jay Graydon produce Figli delle stelle, un lp fusion, che testimoniava l'esplosione che portavo dentro. Disco music? Non proprio, piuttosto pezzi come Donna Luna o Kyoto mon amour, quella era la mia versione del Los Angeles sound, ma, di sicuro, mi servì a conquistare tutte le discoteche».

A 50 anni da «Aria» che cosa rimane del Sorrenti sperimentatore vocale tra Tim Buckley e Shawn Phillips?
«Qualcosa nell'album che verrà è rispuntato fuori. Ascoltare per credere».
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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