Andrea Bocelli nel nome di Enrico Caruso: «Penso a un album dedicato al mito»

Andrea Bocelli nel nome di Enrico Caruso: «Penso a un album dedicato al mito»
di Andrea Spinelli
Mercoledì 21 Luglio 2021, 14:00
5 Minuti di Lettura

Sull'Hollywood Boulevard i loro nomi distano appena 400 metri. La stella di Enrico Caruso sta, infatti, davanti al civico 6625 e quella Andrea Bocelli al 7000, vicina a quella di Placido Domingo che però è ricordato sulla Walk of Fame per la sua attività teatrale, non per quella discografica. Nel campo dell'industria, infatti, l'impatto avuto dai due tenori italiani regge pochi confronti. 

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Bocelli, lo scrittore austriaco Joseph Roth diceva che Caruso - il 2 agosto cade il centenario della sua scomparsa - sarebbe diventato cantante anche se fosse venuto al mondo senza corde vocali.
«Effettivamente se, al di là della boutade, cent'anni dopo la sua scomparsa siamo qui a parlare di Caruso si deve alle straordinarie qualità che l'hanno reso uno dei più grandi cantanti della storia.

Innanzitutto, la voce singolarissima, con i suoi bassi da baritono e gli acuti da tenore, ma anche un fraseggio straordinario. Purtroppo, i limiti tecnici delle registrazioni di allora ci tolgono la possibilità di apprezzarne appieno la bellezza del timbro. Ammetto che sarei disposto a pagare un biglietto incredibilmente alto per avere l'opportunità di ascoltarlo in teatro».

Quando gli chiedevano cosa occorresse per cantare il tenorissimo rispondeva «un gran torace, una gran bocca, il 90 per cento di memoria, il 10 per cento di intelligenza, un sacco di duro lavoro e qualcosa in cuore».
«Non so se le percentuali sono giuste, ma concordo. Leibniz diceva che la musica è un occulto esercizio aritmetico dell'anima che non sa numerarsi. Quindi matematica che il cervello risolve a modo suo, ma come riesca ad influenzare le nostre sfere emotive, però, resta un mistero».

Da ragazzo aveva una voce così esile che lo chiamavano «il vento che passa dai vetri».
«Che Caruso non avesse una voce potentissima è probabile, tant'è che non ha mai affrontato l'Otello, perché sembra non volesse confronti con Tamagno. Ma la questione è relativa, perché ci sono voci che in una stanza sembrano un castigo di Dio e in altri spazi non si sentono e viceversa».

Perché?
«In teatro più che la potenza conta l'impostazione perché, dovendo affrontare e superare il muro dell'orchestra, se lo fai con le sue stesse armoniche non ci riuscirai mai. Il cantante ben impostato, invece, viaggia su frequenze diverse, attestate di solito attorno ai 1.500 hertz, questo gli consente di passare il muro senza il bisogno di avere una voce spaventosamente forte».

Che cosa affascina della figura di Caruso?
«Il mistero che sta dietro la sua voce. Sicuramente aveva una grande interiorità, una vita complessa alle spalle che lo ha messo nelle condizioni di dare alle sue interpretazioni quello spessore e quella profondità apprezzati dalle platee di tutto il mondo».

Effettivamente diceva: «La vita mi procura molte sofferenze. Quelli che non hanno mai provato niente, non possono cantare».
«Le esperienze di vita rendono l'artista più profondo. Pure nel privato ebbe le sue traversie e si racconta che Riccardo Cordiferro, al secolo Alessandro Sisca, scrisse Core ngrato col pensiero al suo travagliato addio alla moglie Ada Botti Giachetti, fuggita con l'autista dopo 11 anni di convivenza e due figli».

Nel 1901 le critiche alla sua interpretazione al San Carlo de «L'elisir d'amore» indussero Caruso a chiudere con i teatri italiani, anche se qualcuno smentisce la versione dei fischi.
«Sono cose che possono accadere nella vita di un artista. D'altronde il detto nemo propheta in patria ha una sua ragione. I melomani sono simili ai tifosi di calcio e la presenza sulla scena napoletana di un altro grande tenore come Fernando De Lucia aveva determinato il crearsi di fazioni, come sarebbe accaduto successivamente tra Callas e Tebaldi, Del Monaco, Di Stefano e Corelli».

Mai andato sulla vecchia terrazza davanti al golfo di Surriento?
«Sì. Il posto è molto bello, ma non soffro di feticismo».

Mai pensato ad album-tributo a Caruso?
«A dire la verità, avevo pensato d'incidere un disco in onore di Caruso riunendo brani che lo contraddistinsero e lo resero famoso. L'idea era venuta a Gustav Kuhn, direttore d'orchestra con cui collaboro spesso, e assieme avevamo stabilito pure il possibile repertorio. Ma non ne ho avuto il tempo perché il mondo tira sempre per la giacca con tante cose da fare. Comunque, se realizzarlo per il centenario della scomparsa è ormai tardi, non è detto che non si possa fare nel 2023 per i centocinquant'anni della nascita».

Intanto, mentre stasera e dopodomani tornerà a celebrare nella sua Lajatico il rito del «Teatro del silenzio», il 27 settembre, davanti al duomo di Napoli, proprio nel nome di don Enrico riceverà un premio.
«È un privilegio avere un riconoscimento a Napoli, da Napoli, nel suo nome. La sera del Premio San Gennaro porgerò i miei rispetti a Caruso, nel nome di quanti, in questi cent'anni che lui non c'è più, hanno continuato ad ascoltare i suoi dischi, la sua leggenda».

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