Addio Battiato, tra Di Giacomo e Daniele nel nome delle due Sicilie

Addio Battiato, tra Di Giacomo e Daniele nel nome delle due Sicilie
di Federico Vacalebre
Mercoledì 19 Maggio 2021, 08:47 - Ultimo agg. 17:51
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La prima volta di Franco Battiato a Napoli, doveva essere il 1972, l'anno di «Pollution», come il precedente «Fetus» dedicato a Il mondo nuovo di Aldous Huxley, ma con il rock al posto dell'elettronica. Teatro Bracco, la gioventù napoletana di ribelli senza pausa né causa (l'impegno, però, stava arrivando, i pugni chiuse pure) guardava strano il suo armeggiare con una strumentazione misteriosa, i sintetizzatori, sino a quando non iniziò a distribuire preservativi giganti. Canio Loguercio, futuro Little Italy e futuro Premio Tenco, ne mise uno in testa e andò a sbattere contro un palo. L'anno dopo, in giugno, partecipò al «Be in» ai Camaldoli, al Villaggio Kennedy, qualcuno lo contestò perché, erroneamente, ritenuto di destra. I tempi stavano cambiando.

La sua ultima volta a Napoli, il 5 giugno 2017, in piazza del Plebiscito, per il «Napoli teatro festival», c'erano 15.000 persone almeno, era la prima manifestazione in una grande piazza, dopo la follia della calca, dei feriti e del panico in piazza San Carlo a Torino.

Un incanto che ci resta nel cuore, nella memoria.

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In mezzo tante altre volte: al teatro Mediterraneo, a Castel Sant'Elmo con i Solisti Italiani alle prese con i lied («Come un cammello in una grondaia»), all'Arena Flegrea (entrata nella mitologia quella sera di pioggia del 19 luglio 2002 in cui il pubblico non voleva mandarlo via e lui tornava, bis dopo bis, con un asciugamano in testa ad esclamare: «Non sembro Big Luciano con i suoi fazzolettoni?»,), al San Carlo, all'Augusteo (da solo e con Alice), a «Caivano rock», al Palapartenope, un Capodanno a Salerno con la conterranea Carmen Consoli, al «Meeting del mare» di Camerota con Manlio Sgalambro sul palco, al «Ravello festival», al «Giffoni film festival». E mille altre volte ancora, in giro per la Campania.


Napoli era nel suo cuore, il regno delle due Sicilie per lui non era motivo di revanscismo alcuno, quanto di orgoglio da vero intellettuale della Magna Grecia. Quando ti ammetteva nel suo buen retiro di Milo, una villa bassa color rosa antico, affacciata sul mare tra Taormina e Catania, gli piaceva parlarti di cartografi persiani, parmigiana di melanzane, dervisci rotanti, dell'amico Lucio Dalla che aveva convinto a trasferirsi a pochi chilometri da lui, con l'incipiente presenza dell'Etna che all'omino piccolo così ricordava l'adorato Vesuvio. Se li beccavi insieme battibeccavano su chi di loro due cantasse meglio «Era de maggio», per Lucio «la canzone perfetta, meglio dei Beatles», per Franco «una delicatissima composizione che ho inciso senza calcare troppo sul dialetto», spiegava parlando di «Fleurs», il suo primo album da interprete, del 1999.


Il classico di Tosti e Di Giacomo Battiato lo cantava con un filo di voce, rispettando la lezione da fine dicitore del maestro Roberto Murolo, «e quando dico questo nome mi alzo in piedi» spiegava. Lo trattava come un lieder di Schubert, «convinto che nella tradizione della melodia verace ci siano le radici della miglior musica italiana».


A Napoli Franco aveva due amici speciali, tra l'altro amici tra di loro. Il primo era Pino Daniele, con cui, nel 2010, divise «Chi tene o mare» per l'album «Boogie woogie man». «Battiato resiste nella trincea della musica d'autore, ci unisce il sapere che chi tiene il mare non tiene niente, il profumo del Sud, la consapevolezza di aver dovuto cercare il successo lasciando casa», raccontava il Nero a Metà. E il «santautore» ricambiava: «Pino ha una musicalità antica capace di farsi moderna. O, forse è vero il contrario. Di sicuro è uno di quei rari cantautori che sono anche musicisti».

L'altra amicizia, meno sbandierata, era quella con Peppe Lanzetta, con cui firmò a quattro mani «Arriverà», sorta di sequel venato di speranza a «Povera patria»: «Arriverà il momento in cui saremo fieri senza più timore, in cui mi saluterai tornando dal lavoro... Arriverà il momento in cui avremo pace, si sveglieranno le coscienze, riapriremo gli occhi. E non ci saranno più inverni, più freddo...», dice il testo. «Avevo scritto una lettera-appello a a vari artisti intellettuali proponendo loro di dar vita a una rivista, intitolata Amico fragile in memoria di De André e dedicata ai problemi degli ultimi della classe, degli emarginati che le nostre metropoli producono in numero sempre più elevato. Mi rispose solo Franco, con poche righe: sono a tua disposizione, chiedimi quello che vuoi», ricorda Peppe. Così nacque quel pezzo, era l'inizio del nuovo millennio, finito su un disco di Peppe, finora il primo e l'unico, nel 2017.
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