Napoli, il ritorno dei Baustelle:
«Cinici per non farci troppo male»

Napoli, il ritorno dei Baustelle: «Cinici per non farci troppo male»
di Federico Vacalebre
Lunedì 16 Gennaio 2017, 21:02
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C’è pop e pop. I ritrovati Baustelle pensano alla «leggerezza profonda» di «Amanda Lear», che è il titolo del primo singolo di lancio, in cui si citano gli Electric Manouvres in the Dark, il Battiato che non sopportava più la musica leggera e il Beethoven della nona sinfonia, prima di intonare l’inno all’ex modella di Dalì che su una storica copertina dei Roxy Music portava una pantera nera al guinzaglio: «I wanna be Amanda Lear/ il tempo di un lp/ Il lato A, il lato B/ che niente dura per sempre/ figurati io e te».

Pornoromantici, cinici decadenti, esistenzialisti post punk, «oscenamente pop», Francesco Bianconi, Rachele Bastreghi e Claudio Brasini in «L’amore e la violenza» giocano a tenere insieme gli opposti e scrivono «canzoni d’amore in tempo di guerra, istruzioni sentimentali per una sopravvivenza non troppo spiacevole», spiega con il solito aplomb il leader Bianconi, consapevole dopo «Fantasma» di dover rilanciare, lasciarsi alle spalle l’esperienza orchestrale. Eccolo, qui, il nuovo disco tra le tamerici salmastre di D’Annunzio, l’electropop di Battiato e dei Depeche Mode, «Betty» che sogna di morire (senza alcun dolore) sulla circumvallazione, cattiverie da bravi ragazzi, svenevolezze da pop anni Settanta-Ottanta («L’era dell’acquario»), discomusic sinfonica, «Il Vangelo di Giovanni» con i profughi siriani e «l’idiozia di questi anni»), una «Ragazzina» «soldatino dell’amore e della guerra». Insomma «un album con dentro le canzoni pop che non sentiamo mai alla radio. Chi l’ha detto che non si può far suonare Haydn e Moroder nella stessa stanza? Dipende dal modo in cui li fai suonare, e dal coraggio che hai nel lasciarli provare».
 

«Amiamo il pop che è leggerezza profonda», continua Bianconi, «mezzo di espressione che parte dalla musica, che usa le parole anche come suono, ancor prima che come significante». E «Amore e violenza» sembra un disco sui dischi, raccoglie canzoni che parlano di canzoni o alludono a canzoni o suonano come altre canzoni, o di quelle risuonano, dichiarando le proprie svezzate a suon di De André e del Battiato pop(olare). Il gruppo conosce l’arte del «gancio», che «è melodia, ritmo, ritornello, tono, parole che sono slogan, sogno, bisogno, insulto». Orgoglioso della propria melanconia, sovverte l’entusiasmo che fu della Nannini in «Ragazzo dell’Europa» per dipingere in «Eurofestival» il tempo della Brexit, di un’Unione ai titoli di coda, come un amore, come una band che vorrebbe ritirarsi dall’ennesimo inutile concorso-gabbia: «È così che mi sento spesso io», confessa Francesco, «come partecipe, nonostante tutto, di qualcosa che non mi piace, a cui vorrei sottrarmi. In fondo, siamo il frutto di un secolo che ci ha consegnati al nuovo millennio sognando un mondo migliore che non riusciamo nemmeno a immaginare, figurarsi se possiamo ipotizzare come raggiungerlo».
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