Gragnaniello e le bio-canzoni di «Vient''e Terra»

Enzo Gragnaniello
Enzo Gragnaniello
di Federico Vacalebre
Domenica 28 Aprile 2019, 15:59
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Rimandato «In viaggio con i poeti», l'annunciato disco di traduzioni di colleghi cantautori e rocker (dai Doors a Lou Reed, da Leonard Cohen a Lou Reed), Enzo Gragnaniello torna al disco con «Lo chiamavano Vient''e Terra», a quattro anni dal precedente «Misteriosamente».
Un paio di perle almeno, quella che dà il titolo al disco (su etichetta Arelive/Warner) e «Cara», ci riportano agli esordi del cantautore napoletano, al suo ruolo di narratore della citta porosa, capace di scrivere storie come quelle di «Cardone», di «Giacomino», di «Rosè». Altri pezzi si sintonizzano con la sua ricerca di una spiritualità verace, naif, panteista («nuje simmo o stesso dio ca ci ha creato.... ma quante religioni fanno rummore, sapendo che a nuje basta l'ammore.... nuie simme fatte pe' capi' stu munno, nun simmo fatte pe' gghi' all'atu munno»). Gli arrangiamenti sono semplici, naturali, emozionanti: «Bio-canzoni, suoni di stagione, raccolti al momento giusto, senza volere una monocultura, un suono unico, anzi: sono orgoglioso della varietà offertami dalla natura e dalla creatività», spiega il sessantaquattrenne nato a vico Cerriglio, forse il più stretto della sua Napoli.
Davvero ti chiamavano «Vient''e Terra», Enzo?
«No, ma la storia è autobiografica. A 10-12 anni facevo parte di una banda di ragazzini di strada che alle cinque del pomeriggio avevano preso l'abitudine di scatenarsi tra vicoli e scale del centro storico: facevamo il vento, dicevamo, ovvero sciamavamo urlando, correndo, trascinando bidoni della spazzatura ed entusiasmo infantile».
Dopo il racconto di quest'esuberanza scugnizza la ballata diventa il racconto della tua giovinezza.
«Per fare vento a 15 anni sono andato a Milano, la mia città mi stava stretta, mi sentivo in gabbia, nonostante l'anarchica libertà che vivevo: dormivamo in sette in una stanza».
E a Milano?
«Sono stato libero di dormire sotto i ponti, di incontrare altri ragazzi scappati da casa come me. Mi beccarono, mi portarono al Beccaria, l'istituto minorile, e mi lasciarono qualche notte, prima di rimandarmi a Napoli».
E tornato a Napoli...
«A Napoli Gragnaniello divenne uomo, incontrò l'amore, i compagni, le lotte, i disoccupati organizzati... La sua vita, insomma».
E la chitarra. Con cui scrivere canzoni come «Cara», che ricorda quelle dei tuoi inizi.
«Proprio così: quella è una storia, forse vera, forse inventata, di sicuro narrata con parole di tufo e colori di mare scuro. Lei se n'è andata, lui fatto a vino non sapeva più chi fosse la sua donna, soltanto adesso si accorge di essere rimasto drammaticamente solo, senza nemmeno la compagnia del dolore della donna che aveva amato».
«'A delinquenza» e «Gli uomini Ego» sono canzoni più sociali, se non politiche. «A' delinquenza è na pasta cresciuta cu''o lievito furbo e nun tene pietà. ... Nun tene culore, nun tene bandiere, nun tene sudore». Non è acqua che bagna, ma mare che ti affonda.
«Qui non racconto il singolo soggetto, delinquente o potente egoista, ma un'entità che non ha sesso, razza, censo. Ricchi e poveri possono vendere la loro anima alla delinquenza o all'egoismo, anche se quando non hai niente pensi a come campare piuttosto che a prevaricare gli altri».
«Povero munno» sembra un misere per il nostro pianeta, la preghiera laica di uno zio della piccola Greta.
«Greta mi ricorda una mia canzone, "'E criature": dovevamo consegnargli un tappeto di fiori su cui venire al mondo, gli abbiamo fatto trovare un deserto di plastica».
E «Addo' si' state» aspetta una profezia, da dividere finalmente con tutti, soprattutto con chi nella vita ha avuto poco o niente.
«È un ritual funky convinto che il tempo, alla fine, l'avrà vinta su tutto, soprattutto sugli uomini di potere».
«Ancora in me» è un fado, o quasi.
«La costruzione di un amore, di una passione, è complicata come quella di un edificio di Gaudì, ma anche quei palazzi sotto la pioggia sono lavati come i nostri sentimenti. A volte vogliamo disegnare in noi la donna che sogniamo, che vogliamo, sperando di poterci fare architetti dei nostri innamoramenti o di poter almeno accordare gli strumenti con cui faremo la serenata alla luce dei nostri occhi».
Una canzone d'amore, come «Addo' si stat», «Na sera cu''tte» e «Si tu me cunisciss'».
«Anche quelle d'odio sono canzoni d'amore, la passione come la luna ha due facce, dovremmo imparare ad andare in fondo nel leggerle». «Si tu nun scinne a ffonne nun o puo' sape'», cantò una volta il poeta di «Cu''mme», nato nel vicolo più stretto di Napoli.RVATA

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