Bob Dylan e JFK, ballata omerica per il declino dell'America (Ascolta)

Bob Dylan e JFK, ballata omerica per il declino dell'America (Ascolta)
di Federico Vacalebre
Venerdì 27 Marzo 2020, 11:53 - Ultimo agg. 28 Marzo, 17:27
3 Minuti di Lettura
Facciamo che questa non canzone vale per il discorso che non ha fatto quando non ha ritirato, il Nobel per la letteratura del 2016. Facciamo anche che l’ha pubblicata perché non aveva altro da fare, costretto a interrompere il suo «neverending tour». A 78 anni la leggenda chiamata Bob Dylan ha pubblicato sul suo sito e su Twitter un inedito a cui mancano solo tre secondi per arrivare a 17 minuti, il suo brano più lungo di sempre («Highlands» del ‘97 si fermava a 16 minuti e 31 secondi) anche se è davvero difficile definirlo canzone, piuttosto è un talkin’ salmodiante accompagnato sul web dall’invito ai fan di «restare al sicuro, restare vigili e che Dio sia con voi».




Il titolo, «Murder most foul» cita l’«Amleto» di Shakespeare, atto I, scena V, più che il film del ‘64 tratto da un giallo di Agatha Christie, ma l’«omicidio più disgustoso del titolo» è quello di John F. Kennedy a Dallas, il 22 novembre 1963, punto di partenza di un visionario affresco epico sulla fine del sogno americano: «L’anima di una nazione è stata strappata via e si avvia al suo lento declino. Trovo un passaggio per il posto in cui fede, speranza e misericordia sono morte. Addio zio Sam», azzarda sua Bobbità, tornando politico come aveva deciso di non essere più da decenni e elencando come ancore di salvezza solo e soltanto musicisti e musica, artisti e arte: i Beatles, gli Who di «Tommy», Thelonius Monk, Charlie Parker, «all that jazz», gli Eagles, i Queen, l’Elvis di «Mistery train», Steve Nicks, «Nature boy» di Nat King Cole, «Please don’t let be me misunderstood», Warren Zevon, gli Allman Brothers, Randy Newman, il dj di «American graffiti» Wolfman Jack a cui chiede di suonare Etta James, gli Everly Brothers, John Lee Hooker, i Beach Boys, Miles Davis, Beethoven, Oscar Peterson, Stan Getz. E di trasmettere anche i grandi film di Hollywood e poi Shakespeare e le comiche di Buster Keaton. Citazioni, versi, titoli, colleghi, maestri sono lacerti di un corpo in putrefazione, tessere pregiate di un puzzle non più ricomponibile.
«Registrata un po’ di tempo fa» - quando? - e chissà se destinata a un futuro album - «Murder most foul» non si confonde con i singolini che divetti sotto vuoto digitale pubblicano in rete in questi giorni. Un pianoforte, leggere percussioni in lontananza, un violino... quasi un flusso di coscienza, ma l’incipit è chiaro: «Novembre 1963... un buon giorno per vivere e un buon giorno per morire». Il presidente è «ucciso come un cane in piena luce» che reclina il capo insanguinato in grembo a Jackie. L’assassinio di JFK tormenta Dylan da sempre, ma qui dà lo spunto alla voce di dentro di una gioventù rimasta senza causa né pausa, invecchiata troppo presto. Da quel giorno: «Era questione di tempo e il momento era giusto... Il giorno in cui fecero saltare il cervello al re, in migliaia guardavano, nessuno però vide. Odio dirtelo, ma solo i morti sono liberi».
Zimmerman veste i panni di Kennedy, rivede la scena con i suoi occhi: «Sfilo su una limousine Lincoln nera, seduto dietro con mia moglie, in direzione aldilà. Mi hanno teso qualche trappola». Poi li abbandona, torna spettatore-commentatore, scandisce le parole come non ha mai fatto, se non alle prese con i materiali sinatriani: «Il giorno in cui lo hanno ucciso, qualcuno mi disse: “Figliolo, l’era dell’Anticristo è appena cominciata”». Vuole essere compreso, si direbbe, a differenza di quando borbotta in concerto, mangiandosi parole che hanno fatto la storia. L’omerica litania ricorda un po’ «Tempest» (che sia un’outtake del disco del 2012, l’ultimo di inediti, che prende il nome da quel brano?) nel suo raccontare l’affondamento del Titanic, una broadside ballad, un blues malato. Una colonna sonora per l’apocalisse prossima ventura, anzi per quella che stiamo vivendo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA