Bruce Springsteen, il nuovo album è «Una lettera al rock and roll»

Bruce Springsteen, il nuovo album è «Una lettera al rock and roll»
di Federico Vacalebre
Mercoledì 14 Ottobre 2020, 11:00 - Ultimo agg. 17 Ottobre, 10:59
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È una lettera dal passato, una lettera al rock and roll, una lettera agli amici caduti, una lettera agli amici rimasti in trincea con lui, una lettera a se stesso, una lettera al suo popolo. È tutto questo, e molto altro ancora, «Letter to you», il nuovo album di Bruce Springsteen, 71 anni, in uscita il 23 ottobre, insieme con il documentario omonimo, affidato al fido Thom Zimny per la regia e alla piattaforma AppleTV+ per la visione.

Una lettera incisa con la gloriosa E Street Band, ma pensando ai Castiles, il gruppo in cui militò sedicenne: «Volevo fare un disco con la E Street Band, ma erano 7 anni che non scrivevo un brano con loro in testa», ha raccontato il rocker in un incontro con la stampa americana, confessando di essersi chiesto: «Sarò in grado di farlo di nuovo?». Poi, un giorno, ha continuato l'uomo del New Jersey, «sono andato a trovare un mio vecchio amico. Suonavamo insieme nella mia primissima band. Era molto malato, sarebbe morto da lì a poco, seguendo tutti gli altri che avevano iniziato con noi. Sono partito da lì a scrivere». La band, appunto, erano i Castiles, l'uomo era George Theiss (1949/2018), «un chitarrista e cantante che avevo visto all'Elks Club», ha ricordato il cantautore nella sua autobiografia: «Tramite mia sorella aveva saputo che suonavo la chitarra» e gli chiese se voleva essere il solista del gruppo che stava formando. 

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Era il 1966, siamo nel 2020, Bruce si sente «The last man standing», l'unico sopravvissuto della sua prima band e si rimette al centro della «sua» E-Street Band: «Il disco parla del senso di perdita, ma anche della gioia di suonare insieme, della bellezza di dividere da ragazzi un'emozione così forte come quella di fare parte di una rock and roll band. E di quanto sia meraviglioso suonare ancora, 45 anni dopo, con persone con le quali andavi al liceo. Tu conosci perfettamente la parte migliore e peggiore di ognuno di loro, ma anche loro possono dire la stessa cosa di te».

Ma mancano all'appello Clarence Clemons e Danny Federici, e le immagini del documentario, con il nipote di «big man», Jake, che soffia nel sax al suo posto, rendono il senso di come ogni concerto della E-Street Band sia una lettera a loro due, ai fantasmi del rock and roll, proprio come le canzoni di questo disco parlano «del rock, di che cosa significhi essere in una rock band».

Il disco è anche un viaggio nella macchina nel tempo. «If I was a priest» è «uno dei primi pezzi che ho suonato al provino con John Hammond», il leggendario discografico della Columbia che il 2 maggio 1972 mise sotto contratto Bruce, dopo aver firmato in passato con Bob Dylan, Billie Holiday, Aretha Franklin. «Janey needs a shooter» ricorda un incontro, nel 1978, con il compianto Warren Zevon: «Era uscito il suo primo lp, venne a casa mia in New Jersey, gli feci sentire questa canzone, gli piacque il titolo, glielo regalai».

Il brano uscì nel quinto album dell'artista di «Werewolves of London», «ma questa è il brano originale che lui ascoltò». I pezzi nuovi sono stati «scritti in 10 giorni e registrati in 5, in presa diretta in studio, per la prima volta. Prima di suonare, ci abbandonavamo ai ricordi: Ehi, vi ricordate di quella volta che eravamo sul tour bus e il cesso ha cominciato a perdere e stava arrivando tutto al tuo letto? Si rideva e poi si suonava».

Purissimo rock and roll, fuori dal tempo forse, ma con orgoglio. Come con orgoglio spunta fuori, nel disco come nel docufilm, un po' di Italia. Nel primo c'è «House of thousand guitars», ispirata da un incontro con un fans italiano al termine di una delle repliche di «On Broadway»: «Mi avvicino alla macchina e trovo un ragazzo con una chitarra in mano. Penso voglia farmela firmare, così gli dico: Amico, non voglio autografare chitarre. E lui: No, questa è per te. La guardo, è bellissima. Accetto il dono con piacere. Torno a casa, la squadro. Il legno è bellissimo. Provo qualche accordo. Suona da dio. Tutte le canzoni sono nate da lì. Tutte le canzoni sono in quella chitarra». Nel documentario, invece, c'è un ricordo del concerto napoletano in piazza del Plebiscito. . 

E la politica? Nelle lettere spedite con questo disco ce n'è poca, tanta sta viaggiando con i voti via posta degli elettori americani: «Trump perderà. Nessun dubbio. Lo metto nero su bianco. Joe Biden vincerà e svanirà quest'incubo. Spero che sia un risultato netto, senza arrivare al fotofinish, prego che sia così. Spero che la mia terra ritrovi l'unità che ha perduto. Apprezzo il movimento Black Lives Matters, le persone di colore rischiano. Possono trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, senza aver fatto nulla di male. È arrivato il momento di dire basta a questa situazione, alla destra di Trump. Continuo a credere nell'America e negli americani. Abbiate fede, fratelli e sorelle».

Già, ma il disco com'è? Forse il problema non è lui, che a 71 anni crede ancora in quello che fa (magnificamente), nel potere salvifico del rock and roll, persino nel futuro (detrumpizzato) dell’America. Forse il problema siano noi, che correvamo in Svizzera a vederlo quando da noi era culto da happy few e che siamo diventati molto, ma molto più cinici di lui e non riusciamo a farci bastare più la sua passione, il suo fuoco, la sua voce che sfida le leggi del tempo.

Ma il tempo passa e «Letter to you», ventesimo album di sua Bossità Bruce Springsteen pur riunendo la gloriosa E Street Band, lascia incerti al primo ascolto. Bruce ha trovato nel baule dei ricordi tre canzoni rimaste a prendere la polvere - «Janey need a shooter», la blasfema «If I was the priest» e «Song for orphans» lo mostrano acerbo, inevitabilmente dylaniano dylaniato con tanto di armonica e tematiche bibliche, mentre le nove canzoni nuove hanno la compattezza del live in studio, il colore/calore garantito dalla band di «fratelli di sangue» (che bello ricitarli: Little Steven e Nils Logfren alle chitarre, Roy Bittam al piano, Gary Tallent al basso, Max Weinberg alla batteria, Charlie Giordano all’organo, Patti Scialfa ai cori, il nipote d’arte Jake Clemons al sax), una versificazione felice nonostante qualche clichèt di troppo («Rainmaker»). Sicuramente personale, l'album pecca di sorprese, manca di picchi, latita dell’anti-epica springsteeniana, della capacità di sfoderare panorami inattesi, sguardi laterali, narrazioni minori, ma capaci di unirsi in un affresco collettivo.

Il sound guarda a «Born to run», ed è nostalgia canaglia, ma anche a «Born in the Usa» e... non se ne sentiva troppo il bisogno. Dimenticati i sapori da country orchestrale di «Western stars», Springsteen ha cose da dire, ha canzoni che non saranno consolatorie, basti pensare che il disco si apre con un ritornello come «Un minuto sei qui, quello dopo non ci sei più». E non è solo la solita love story.

Piace «House of a thousand guitars», e non solo perché ispirata da un fan italiano: è un sermone sul potere laico del rock and roll sia pur screziato dal suono di un organo di chiesa. E una chitarra è ancora al centro del testo di «Ghost», al centro di un disco che di fantasmi parla: «Incontra i tuoi fratelli e le tue sorelle dall’altra parte». E «The power of prayer» cita Ben E. King e i Drifters di «This magic moment».

Ma manca, ecco, forse non siamo noi ma è lui, osiamo dirlo, che nel guardarsi indietro, nel raccontare quanto ha perso e quanto gli resta, quanto abbiamo perso e quanto ci resta, ha smarrito anche l’urgenza di un tempo. Sono canzoni meno urgenti, meno infiammabili e infiammanti, e non solo per il tema scelto, per la maturità del suo autore e dei suoi magnifici compagni.

Ma poi, ti accorgi che, prima di rimettere sul piatto «Darkness on the edge of the town» e «The river», stai già canticchiando qualche canzone di «Letter to you», che stai sognando di ascoltarla dal vivo, di sudarla dal vivo. Forse siamo solo noi che siamo diventati più cinici, lunga vita al Boss, al «Last man standing», il sopravvissuto del rock.

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