A sei anni da «L'abitudine di tornare», Carmen Consoli torna, con ben poca abitudine, grazie a un album vario nei suoni (Massimo Roccaforte e Toni Carbone sono sempre al loro posto) e nelle tematiche come «Volevo fare la rockstar». Chitarre sature, armonie melodiose, rumori di fondo, parodie di sovranisti e negazionisti da strapazzo, echi di bolero, surf, prog mediterraneo, profumo di orchestrine anni 50, mood da folksinger ecologista.
Partiamo dal titolo, Carmencita. Quando hai capito che volevi fare la rockstar?
«Sin da bambina.
Poi però trovasti l'America a casa tua, nella tua Catania.
«Francesco Virlinzi, un produttore illuminato che se n'è andato troppo, troppo presto, ci evitò di sembrare le macchiette che volevano fare gli americani disegnate dai grandisimi Carosone e Sordi. Quando tutti i discografici mi dicevano Non andrai da nessuna parte con questi testi così ruvidi e queste chitarre troppo distorte, lui mi accorse con un Minchia, ma canti troppo bene, sporchiamo un po' questo suono. Portò i più grandi fonici americani a tenere corsi a Catania, che divenne la Seattle d'Italia. Mi diceva: La vuoi far mettere nel tuo cd una chitarrina a Peter Buck? e mi portava i Rem in sala di registrazione. L'eldorado a due passi, con la possibilità di riscoprire la mia meridionalità».
In che modo?
«Andando oltre la storia ufficiale. A quel tempo in Sicilia ci vergognavamo di essere siciliani, nascondevano il dialetto e l'accento, ci sentivamo inferiori. Poi ho capito com'è stata fatta l'Unità Italia, chi ci ha perso e chi ci ha guadagnato. E sono diventata orgogliosa della mia essere una donna del Mezzogiorno, sia pur solo per metà. Mio nonno era nordico e sull'isola aveva trovato lo spazio, la possibilità, gli uomini per costruire il suo destino».
L'altra sera eri nel clan dei siciliani che non poteva mancare all'arena di Verona per il tributo a Battiato: con te Madonia, Colapesce-Dimartino, Incudine e Caccamo.
«Franco è stato un maestro, un faro nella notte. Quando ho intonato Tutto l'universo obbedisce all'amore, che aveva scritto per noi due, perché la cantassimo all'unisono, ho capito che sugno rimasta sula. E si è riaccesso lo strazio per la sua scomparsa».
Cerchi «l'impegno e la coerenza» in «Armonie numeriche». Proponi di «Imparare dagli alberi a camminare». In «Una domenica al mare» suggerisci di «respirare col cuore», di «riaccendere i sogni e i lumi della ragione». In «Le cose di sempre» denunci una «giungla inospitale in cui a dettare legge è il predatore, il mito della clava e del terrore. Poi c'è l'amaro quadretto di «Mago magone». Non sarà un album politico, questo?
«La pandemia ci costringe più che mai ad essere politici. Quel pezzo ironizza sui negazionisti che predicano male e razzolano peggio».
Non sarà Salvini uno di quegli «illustri sciamani» che offrono «rimedi a pene d'amore, mali impietosi, miseria, timore», che assicurano che «la terra è in gran forma» e «l'effetto serra è una superstizione da scienziati»? Il condottiero borioso di «Qualcosa di me che non ti aspetti» che non ha nessuna pietà per le migliaia di vite perse in mare?
«Tu l'hai detto».