Claudio Baglioni premio Tenco 2022: «Non è una rivincita ma che soddisfazione»

Claudio Baglioni premio Tenco 2022: «Non è una rivincita ma che soddisfazione»
di Federico Vacalebre
Domenica 23 Ottobre 2022, 09:00 - Ultimo agg. 16:02
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Inviato a Sanremo

Staino, presidente del Club Tenco, è felice, anche se «42 anni fa gli avevamo mandato un mio disegno sperando di avere in cambio un suo autografo per la mia nipotina che lo idolatrava e non ne ho mai più saputo niente. È un grande artista: quando lo abbiamo proposto per il Premio Tenco pochi hanno storto la bocca e tutti gli altri sono stati più che d'accordo». Claudio Baglioni, un tempo simbolo del cantautorato romantico-disimpegnato, prima di salire sul palco del teatro Ariston di Sanremo per ritirare il riconoscimento alla carriera, ringrazia ironico: «Posso sapere il nome di quei pochi che hanno storto la bocca?». 

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Partiamo da qui, Claudio? È caduto un altro muro, magari fuori tempo massimo? Più felice di essere stato ammesso nel gotha cantautorale o dispiaciuto di esserne stato finora escluso?
«Pensavo che non sarei più riuscito a venire al Tenco visti anche i miei precedenti aggravanti con il Festival di Sanremo. Non so se avrei meritato che succedesse prima, ma l'importante è che sia accaduto quando il percorso era chiaro. Una caratteristica del premio del Club Tenco è quella di andare a fotografare una carriera, riconoscendo un ruolo nel campo dell'universo di ricerca di quella cosa che non sappiamo mai come chiamare: musica leggera, popolare, pop...».

Qui la si chiamava, e si chiama, «canzone d'autore», ma una volta voleva dire anche, se non soprattutto, canzone impegnata, engagè, militante. Da «compagni».
«Dire d'autore è un po' forzato: anche quando chi la scrive non coincide con chi la canta la musica ha sempre un autore. Ma è un problema del nostro vocabolario. Ancora fino a 10 anni fa non sarebbe stato pensabile abbinarmi a questa manifestazione e oggi mi fa, forse, ancora più piacevole riceverlo, perché lo sento meno modaiolo, meno legato alla cronaca.

Premia la mia carriera nel nome di un artista, Luigi Tenco, per cui ho avuto sempre ammirazione: una carriera purtroppo brevissima, appena tre lp. Con Bindi era il migliore della sua generazione, il più preparato».

L'hai conosciuto?
«No, lo ricordo appena al bar della Rca, ad inizio 67. Io facevo provini, sempre bocciati - compreso uno per una sua canzone, Un giorno dopo l'altro, la sua sigla per il Maigret televisivo - e lui se ne stava al bar, malinconico, muto, girato. Poi seguii il suo fatale Festival in tv con mio padre e mia madre. Nonostante i gusti e le generazioni diverse, decidemmo che era il migliore».

Torniamo al Premio Tenco: ti sei mai sentito discriminato?
«Rambaldi fondò prima il Club Tenco e poi il Premio Tenco per reagire a quella morte assurda, per segnalare un altro tipo di canzone. Un premio elitario, ma nel senso buono, che si assumeva il compito di indicare artisti meno commerciali, meno disimpegnati. Un compito che oggi manca, forse un po' paternalistico, ma importante, utile: servirebbe ancora chi segnali giovani di qualità meno legati al mainstream».

Insomma, non ti sentivi snobbato?
«Ma sì, io cantavo l'amore, eppure avrei voluto partecipare a quel sogno di cambiamento che portò a quella spaccatura. Se vuoi fare una rivoluzione miri al bersaglio grosso e io che ero di pianura, non un barricadero, fui escluso da quel panorama. La divisione tra impegnati e non durò in realtà meno degli anni Settanta, poi rimase per definizione e le definizioni non sono mai utili, sono gabbie: non ci libereremo mai dai pregiudizi. Qualcuno ha avvertito il Tenco come una cricca, una parrocchia a se stante, forse anche i miei Festival hanno contribuito ad abbattere le barriere tra le due manifestazioni sanremesi. Poi, mica era un problema solo mio: anche i cantautori militanti stavano stretti nelle definizioni univoche. De Gregori diceva ai giornalisti: Dai, non scrivere che sono bravo, ma che sono bello. Non vedo il riconoscimento come una sorta di rivincita, era giusto aver creato una sorta di divisione tra generi musicali, tra quelli impegnati e non impegnati. Mi capita di partecipare ad eventi dove magari ti trovi con personaggi usciti dai talent e sembra che tutti facciamo la stessa cosa, ma non è così».

Pace fatta, insomma?
«Ci abbiamo messo tempo a colmare questo solco, c'è stato il plauso per grandi artisti militanti e per militanti spacciati per artisti, ma l'attuale pace dei sensi e dei consensi non mi pare nemmeno positiva. Io ho subito questa impostazione ma non mi sento vittima, mi ha regalato tempo per sviluppare una mia ricerca personale nell'ambito della canzone moderna, attraverso stili ed avventure molteplici».

Non ti sorprende nemmeno che la motivazione del tuo premio riconosca «Questo piccolo grande amore», al centro anche del tuo applauditissimo show all'Ariston, come la «canzone del secolo» scorso?
«No, qualsiasi altra scelta mi avrebbe addolorato. Quando, era il 6 gennaio 1985, venne eletta con voto popolare nell'ambito di Fantastico 5 mi sentii felice in modo fisico. La notte cominciò a nevicare a Roma, io ancora fumavo e portando fuori i miei cani mentre imbiancava ripetevo a me stesso ed al Tevere: Io sono l'autore della canzone del secolo».

Ricevi il Premio Tenco nel giorno in cui si insedia il governo Meloni.
«Non ho molte aspettative, ma spero in una regia di comando matura e che si abbassino i toni, a cominciare dal dire maggioranza e minoranza anziché opposizione. Certo, questo nuovo governo rappresenta un fatto epocale, storico, che non si immaginava potesse accadere... ma, pur non essendo io un complottista, credo che il governo mondiale non conceda margini elevati di azione».

Richieste per il settore?
«Noi artisti siamo dei privilegiati, ma... chi lavora con noi di sicuro si gioverebbe di una legge per la musica. Quella per il cinema è stata fatta».

Stefano Senardi, del direttivo del Tenco, si dice felice di aver aperto questa edizione premiando Marracash e di chiuderla con te. I rapper sono davvero i nuovi cantautori?
«Per significato e significante dei testi sì, la loro aderenza ai tempi è forte, sanno trasmettere il disagio, lo scetticismo, il cinismo, una ribellione che non sfocia più in qualcosa collettivo, ma si ferma nelle strade, sfociando anche in caratteristiche individualmente delinquenziali, per piccole bande. Forse sono persino più narratori dei cantautori, che erano privilegiati, più bellini e intellettuali, meno brutti, sporchi e cattivi. Ma, mi chiedo, che cosa resterà di questa scena a cui appartengono ottimi artisti? Lo dico perché la storia ci ha insegnato che si tramandano le melodie, certi stili, certi testi, mentre l'hip hop si affida al linguaggio, una sorta di recitar cantando, al suono, è forse meno capace di imporsi nella memoria collettiva. Mi dispiacerebbe se fosse davvero così».

Veniamo a «Dodici note solo bis»: riparti da dove hai finito il tour precedente.
«Sì, per questo parlo di bis. Dopo l'anteprima del 6 novembre nel teatro Comunale di Caserta tutto inizia la sera dopo dal San Carlo».

Ti sei affezionato a quel teatro.
«Sì, è bellillo. È il più bel teatro d'Italia, d'Europa, del mondo ed io sarò alla mia quarta volta su quel palco prestigiosissimo, un altro riconoscimento, in qualche modo: per un artista non ortodosso come me è sempre un approdo sempre un po' complesso, mi fa piacere, è un privilegio ed un onore esserci con un concerto che sento davvero mio».

72 date andando avanti anche nel 2023, quando compirai 72 anni. Intanto hai prenotato anche San Siro e Olimpico. Torni negli stadi?
«Diciamo che li hanno prenotati per me, tenendo anche in considerazione la mia veneranda età. Vedremo, se non lo faccio nel 2023 di sicuro nel 2024».

Intanto c'è questo «bis». Cambia qualcosa nella formula? Sempre solo sul palco?
«No, niente, me la canto e me la suono, mi godo la possibilità di eseguire canzoni nella loro nuda proprietà, nella propria nudità, solo voce, poca amplificazione, nessun effetto spettacolare, simili a come erano quando sono nate. Mi sono goduto i kolossal con centinaia di persone in scena, mancavano solo gli elefanti, ma qui c'è una dimensione intima, da camera. 72 concerti in 100 giorni, tutti debutti, niente repliche, vado a cercarmi il pubblico città per città, godendomi la meraviglia dei teatri all'italiana. Tante canzoni, sempre poche per le oltre 300 che ho scritto, e la possibilità di cambiare scaletta ogni sera, per complici solo un pianoforte, un piano elettrico ed un digitale: un valzer nel tempo». 

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