Le Corde Oblique suonano «I maestri del colore»

Riccardo Prencipe
Riccardo Prencipe
di Federico Vacalebre
Martedì 20 Settembre 2016, 12:57 - Ultimo agg. 12:59
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Riccardo Prencipe, chitarrista, compositore e storico dell’arte, ha riunito nel nuovo album del suo ensemble, le Corde Oblique, le sue due passioni artistiche: «I maestri del colore» (Infinite Fog productions), infatti, sin dal titolo ispirato ad una storica collana di dispense anni Sessanta della Fabbri Editori e dalla foto di copertina di Franco Fontana, si presenta come una sorta di concept costruito intorno ai colori della musica, ossimoro a cui si cerca qui di dare un senso nell’elogio della sinestiesia.
Abituato alle sue lezioni-concerto a Capodimonte, Prencipe stende sulla tavolozza spartito il viola ispirato ai dipinti di Emil Nolde, il «Giallo dolmen» suggerito dal complesso megalitico pugliese di Li Scusi, il «Rosa d’Asia» ammirato in tour in Cina, il «Blu regale», il «Blubosforo» inevitabilmente intravisto a Istanbul, senza dimenticare di usare il bianco, l’oro, il rosso, il nero del cretto di Burri. E lo fa con la complicità dei musici che da tempo gravitano intorno al marchio Corde Oblique (Edo Notaloberti al violino e Annalisa Madonna alla voce, innanzitutto), più altri strumentisti napoletani e non, provenienti dai Synaulia, l’Ensemble Micrologus, gli Ashram, i Sineterra, il Quartetto Savinio, più la bulgara Denitza Seraphim.
L’etichetta sin qui usata per il gruppo, «ethereal folk», dice e non dice dei panorami sonici approntati, come anche l’indiscussa propensione progressive di alcuni pezzi o la deriva medioevalista di altri non basta a definire il sound, visionario quanto desueto. Tra una ripresa raggelata più che minimalista del Modugno di «Amara terra mia» e un canto spagnolo del XIII secolo, i brani originali brillano per i colori usati, per la saggezza di chi li ha preparati, non ancora per l’originalità nel metterli insieme: che si tratti di brani cantati o strumentali, Prencipe riesce di sicuro a creare un’atmosfera precisa, un «landscape» acustico, ma non osa ancora sul fronte compositivo, forse frenato dalla cultura classica di cui è imbevuto, forse prigioniero nei confini di quella che un tempo abbiamo chiamato new age.
Eppure quando si lascia andare, come in «Papavero e memoria» o in «A fondo oro» o soprattutto in «L’urlo rosso», quando accetta il ruolo protagonista della sua chitarra, lascia immaginare che cosa potrebbe succedere se tra i futuri maestri del colore da suonare decidesse di mettere Caravaggio o Bosch, Schiele o Dix. Nell’attesa si faccia più feroce e potente, il progetto sa farsi evocativo e proporsi per sonorizzazioni cinematografiche come per stagioni cameristiche alla ricerca di sonorità diverse.

E non è poco.

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