Corde Oblique, opzione folkgaze

Corde Oblique
Corde Oblique
di Federico Vacalebre
Martedì 21 Aprile 2020, 12:14
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Riccardo Prencipe, anima, autore, voce e chitarra delle Corde Oblique parla di «folkgaze», immaginando «The moon is a dry bone», ottavo album della formazione napoletana edito dalla Dark Vinil, come un incontro tra neofolk e shoegaze, avvertendo il primo come un genere al confine con il l’arte del songwriting ed il secondo come un alternative sound capace anche di implodere, oltre che di esplodere, senza mai rinnegare, naturalmente, la melodia.
Eppure gli ingredienti chiamati in causa sono più complessi, lontani dal folk inteso come creazione popolare, tra riferimenti cantautorali come certe ballate medievali deandreiane, progressive anche in una versione modernista ed elettronica, spruzzi di avant jazz attribuibili al bassista Umberto Lepore, spunti teatrali non solo per il supporto recitante di Maddalena Crippa, improvvise accelerazioni che rompono l’atmosfera tranquillizzante sino a quel momento creata, inquietanti scansioni del violino di Edo Notarloberti... Così, non potendo davvero definire il genere, ci liberiamo da ogni definizione con le Corde Oblique che piacciono di più quando alla (finta) quiete preferiscono il dichiarato rumore. Prencipe, che insegna Storia dell’arte al liceo, passa dalle chitarre acustiche a quelle elettriche, non disdegna effetti come il sustain e il drone, aggiunge ai suoi musicisti (oltre ai già citati ci sono Rita Saviano alla voce, Alessio Sica alla batteria, Luigi Rubino al piano, Michele Maione alle percussioni) ospiti come Miro Sassolini (Diaframma), Andrea Chimenti (Moda), Caterina Pontraldolfo, Carmine Ioanna, Denitza Seraphim.
Dieci brani originali, alla ricerca di una dimensione poetica che non dispiacerebbe vedere in futuro macchiata dall’ironia e da un po’ di sano cinismo, tra cui evocazioni geografiche come «Le torri di Maddaloni», «Herculaneum» ma anche «I figli dei vergini» più una cover degli Anathema, «Temporary peace».
A quattro anni dal predecessore «I maestri del colore», «The moon is a dry bone» (bella la copertina di Hardijanto Budiman), masterizzato da Geoff Pesche nei mitici Abbey Road studio londinesi, mostra il percorso orgogliosamente ondivago di una formazione anomala, coraggiosa, abituata a girare in concerto l’Europa come la Cina, e destinata a sorprenderci ancora.

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