Bersani: «Dal blackout privato la luce del mio disco»

Bersani: «Dal blackout privato la luce del mio disco»
di Federico Vacalebre
Venerdì 2 Ottobre 2020, 21:03 - Ultimo agg. 11 Ottobre, 15:53
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No, non sono dei «film da vedere a occhi chiusi», come pure Samuele Bersani, 50 anni compiuti ieri, chiama le sue nuove canzoni. Nel «Cinema Samuele», titolo dell'album in uscita oggi, si proiettano, piuttosto, cortometraggi da vedere ad orecchie ben aperte. Non a caso, spiega lui, «sono venute prima le musiche, le basi, gli arrangiamenti, poi le melodie, quindi sono spuntate le storie da raccontare, le parole, i personaggi». Auguri, allora, e che bello sedere nel Nuovo Vecchio Cinema Bersani, ritrovare una qualità di scrittura, narrativa ma anche sonora, importante, cosciente della trincea che scava dall'«intronata routine del cantar leggero» (copyright Panella per Battisti) dilagante quando affronta i nostri giorni precari.

«Nuvola numero nove» è del 2013, Samuele.
«Sì, sono mancato sette anni, cosa gravissima secondo quei signori dell'algoritmo per cui un artista deve farsi vedere ogni giorno, ma... avevo da fare. Ero precipitato in un blackout privato che è diventato artistico, quanto la tua vita ha... problemi le canzoni non ti vengono bene, anzi non ti vengono proprio. Nell'abisso in cui sguazzavo non riuscivo a scrivere nemmeno la lista della spesa».

Due volte auguri, allora: per il mezzo secolo e per essere tornato tra di noi. La luce che lotta con il buio è al centro di un disco che è quasi un concept album. Sei tu che sei uscito a riveder le stelle?
«Un po' sì, e un po' tutti noi. Gran parte dei pezzi sono pre-lockdown, ma qualcosa è venuta dopo, il buio di cui parlavo non poteva essere così oscuro come quello in cui siamo precipitati ora».

Ha da passa' a nuttata.
«Sì e il tono positivo finale di Harakiri, ma anche il primato del presente sul passato di Il tuo ricordo sono segnali di speranza».

Il secondo brano che hai citato è una melanconica ballata pianistica, preceduta nel disco dalla più mossa «Mezza bugia» che sembra uno dei momenti più intimi del disco.
«È vero, stavo giocando a invertire il concetto della mezza verità per discutere sull'incomunicabilità tra due persone che pensano di conoscersi bene quando mi sono fatto prendere la mano dalle mezze bugie che mi erano state dette, che ho dovuto attraversare per arrivare alle mezze verità poi scoperte».

Di incomunicabilità parla quasi tutto il lavoro. Una condizione esaltata dalla narcotizzazione digitale imperante. «Pixel» e «Scorrimento digitale» sono j'accuse stemperati da una mesta ironia alla socialcrazia in cui essere o «postare» non è più un dilemma: clicco quindi sono.
«Siamo dipendenti dal web ed è grave, anche se vedo in giro voglia di bellezza, di emozioni che nella rete sono rare».

Un pezzo come «Le Abbagnale» ci riporta a «Il mostro» o «Chicco e Spillo», le tue «short stories» sono precise, complete, da fumetto, da cortometraggio.
«Anche qui c'è il tema della luce: le due donne si incontrano nell'androne di un palazzo a lume di candela. Una è come un'ortica spinosa, l'altra leggeva Moravia già a 10 anni. Sono diversissime, ma si scoprono vicinissime. Vanno a vivere insieme, inno all'amore incondizionato, che potrebbe illuminare l'intera Roma».

E riecco la luce. Ma perché «Le Abbagnale»?
«Perché, per errore o per ipocrisia, la gente le dice sorelle. E chi sono i fratelli d'Italia, se non gli Abbagnale? Chi altri abbiamo? I Fabbri?».

I suoni non si fossilizzano in un genere, accettano anche la sfida dell'elettronica senza piegarsi al suono piccino picciò imperante. Verrebbe da dire che il buio attraversato ti ha regalato una luminosità particolare.
«De André diceva che l'uomo migliore è quello che ha attraversato tutti i disagi».

«L'intervista» è davvero una pagina sorprendente, parodia del giovane genio che si sottopone alla stampa con supponenza e fiato alcolico. Il povero giornalista prova a non ascoltare i suoi deliri, ma poi viene licenziato per aver scritto male del presunto genio.
«Sì, è buffo, ma mi sono messo nei panni di chi fa il tuo mestiere. Il mio maestro, Lucio Dalla, mi ha insegnato l'umiltà, invece vedo in giro tanta supponenza».

Mettiamo in berlina l'indie pop?
«Gli indipendenti che lavorano tutti per le major? No, hanno almeno il merito di aver riportato in auge il mestiere del cantautore, sia pur con una concezione diversa».

Fin dagli esordi fai il narratore in musica. Mai pensato di dare alle storie respiri più lunghi? Al cinema? Ai libri?
«Il cinema, lo dice già il titolo e la copertina del disco, è una mia passione, a 15 anni scappai di casa per andare da Dario Argento, ma...

no, mi basta la misura narrativa della canzone, anche se poi nel mio album ci ho messo di tutto, persino i porno e i titoli di coda. Un romanzo? Dei racconti? Me l'hanno chiesto, non ci ho mai pensato».

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