E Cat Stevens duettò con Yusuf Islam

E Cat Stevens duettò con Yusuf Islam
di Federico Vacalebre
Sabato 26 Settembre 2020, 12:25 - Ultimo agg. 13:48
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L'uomo dai tre nomi e dalle chissà quante vite prova a fare la pace con il proprio passato, rilegge se stesso, duetta persino con se stesso.

Cinquant'anni fa, il 23 novembre 1970, l'uomo che era nato a Londra il 21 luglio 1948 come Steven Demetre Georgiou e aveva scelto il nome d'arte di Cat Stevens dopo che un'amica gli aveva detto che i suoi occhi assomigliavano a quelli di un gatto, pubblicava il suo quarto lp, «Tea for the tillerman». Si era già fatto notare, nel 1967, come giovane stella della swingin' London con l'esordio di «Matthew & son» e, subito dopo, con «New masters», poi una grave tubercolosi lo aveva condotto in sanatorio. Ne uscì provato, la barba lunga, i capelli più lunghi, i sogni più grandi ed alternativi. Aveva avuto tempo per riflettere, scrivere, fantasticare, soffrire, immaginare un altro mondo possibile. Aveva cose dentro. Tra il 70 e l'anno successivo conquistò il successo con ben tre lavori: «Mona Bone Jakon» (dal soprannome che il cantautore dava al suo pene, ma trascinato in hit parade dal singolo «Patti D'Arbanville»), «Tea for the tillerman» e «Teaser and the firecat» (in cui emergevano le radici paterne grecocipriote ed una hit come «Peace train»).

Il songwriter dagli occhi di gatto quando uscì «Tea for the tillerman» aveva solo 22 anni ed era fidanzato con la sensuale Patti D'Arbanvile, attrice a cui nel disco aveva dedicato un'altra melodia destinata a durare, «Wild world». Ormai stella internazionale, aveva davanti un campionario di ballate timidamente ecologiste, esistenzialiste, forse persino spirituali. Mezzo secolo dopo, a 72 anni, ormai convertito con il nome di Yusuf Islam, ha reinciso proprio quel seminale album, appena uscito come «Tea for the tillerman²». Il timoniere del titolo in copertina ora indossa una tuta spaziale ma continua a bere il suo tè, mentre i ragazzini che giocavano vicino a lui vivono giocano immersi nei loro telefonini. La barba c'è ancora, i capelli lunghi no, la voce è stata risparmiata da decenni senza alcol, sigarette e droghe, accanto a sé l'uomo dai tre nomi e dalle chissà quante vite ha richiamato il produttore e il chitarrista dell'epoca, Paul Samwell-Smith e Alun Davies, e si è chuso nei Fabrique, vicino a St Remi (Francia del Sud, buen retiro di Van Gogh), studi che un tempo sono stati una fabbrica per tingere le giacche rosse degli ussari di Napoleone. Qui ha rimesso mano al suo passato, l'ha rivisto, corretto, accettato, promosso, in qualche modo commentato. Il dissidio tra la vita bohémien e quella illuminata dalla fede sembra essere messo da parte, sia pure pagando il prezzo di trasformare «Wild world» in un valzer, in una sorta di cabaret song, con un accordeon a cancellare il «lalalalalala» su cui tanto ci siamo accalorati in schitarrate giovanili sulla spiaggia, sui prati, su letti sfatti e pronti ad essere ancor più disfatti dall'esuberanza giovanile.

Più naturale, in qualche modo meno traumatica, eppure davvero rivoltata come un calzino, è l'altro brano celebre dell'lp, «Father and son», dialogo tra un padre e un figlio che oggi sono Yusuf e Cat (la sua voce è stata registrata al Troubadour di Los Angeles in quel fatidico 1970). Il padre (Yusuf) sembra aver capito il figlio (Cat), che però vuole ancora scappare via, e forse ha anche capito da che cosa, piuttosto che da chi. Incisa da mezzo mondo, sua maestà Johhny Cash come i dimenticati e dimenticabili Boyzone, da Sandie Shaw a Ron («Figlio mio, padre mio») è diventata quasi una metacanzone, è la voce di dentro di quello che siamo stati e di quello che siamo diventati, «same old story», davvero.

Eppure forse non lo compreremmo questo disco che allora comprammo, consumammo, cantammo, amammo, suonammo. Troppo lontano, in qualche modo, da chi fummo come da chi siamo, da quelle ballate folk che ci fecero credere liberi, dai ritmi elettronici dei giorni nostri che ci dicono ancora schiavi. Ma sbaglieremmo, privandoci del piacere della nuova «Longer boats» innervata dallo speech del rapper Brother Ali, del viaggiare sino al deserto nordafricano dove ci porta il nuovo arrangiamento di «On the road to find out», di chiederci davvero dove possano giocare i ragazzi (l'iniziale «Where the children play?»): «Beh, avete spaccato il cielo, grattacieli riempiono l'aria/ continuerete a costruire/ fino a che non ci sarà più spazio lassù?/ Ci farete sorridere, ci farete piangere?/ Ci direte quando vivere, ci direte quando morire?/ So che siamo venuti da lontano/ cambiando giorno dopo giorno/ ma dimmi, dove giocheranno i bambini?».

Cinquantanni dopo, il timoniere indossa una tuta spaziale, il pianeta è messo molto peggio di allora e c'è ancora meno spazio per i giochi dei bambini. «Same old story», belle vecchie canzoni intonate con voce resiliente da l'uomo che potete chiamare come preferite: Steven Demetre Georgiou, Cat Stevens o Yusuf Islam.

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