Fitzgerald, l'album inedito:
come un Picasso ritrovato

Ella Fitzgerald
Ella Fitzgerald
di Federico Vacalebre
Lunedì 5 Ottobre 2020, 12:27 - Ultimo agg. 20:24
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È vero che ogni scarrrafone è bello a mamma sua, ma Gregg Field si sbilancia, ed ha una credibilità mica male da difendere: «È come aver scoperto un Picasso di cui non si sapeva niente e che si rivela essere uno dei suoi lavori più importanti, uno dei suoi capolavori». Parla di «The lost Berlin tapes», live album di Ella Fitzgerald appena pubblicato dalla Verve: registrato allo Sportpalast berlinese il 25 marzo 1962 con la regina del jazz in forma assoluta e il piano di Paul Smith a guidare Wilfred Middlebrooks al contrabbasso e Stan Levey alla batteria.
«Una pietra preziosa, senza prezzo», insiste Field, che accompagnò alla batteria la signora del jazz (Newport News, 25 aprile 1917/Beverly Hills, 15 giugno 1996) quando aveva solo 19 anni: «Ci eravamo conosciuti per caso. A 17 anni andai a un concerto di Count Basie, il mio mito, e trovai il coraggio di presentarmi a lui e dirgli che siedevo dietro i tamburi. Il suo batterista, Sonny Payne, era in ritardo e lui mi chiese di sostituirlo. La Fitzgerald era nel backstage e volle conoscere quel ragazzo del pubblico finito sul palco. Due anni, ormai nella band di Basie, ho suonato spesso con lei: era una persona fantastica, ma si sentiva meglio al microfono, davanti alla platea, che nella vita di tutti i giorni. In quei momenti era pura gioia, la dispensava e, anche se non la aveva dentro, la cacciava fuori», ricorda il musicista, che dopo aver lavorato con altre leggende come Frank Sinatra e Placido Domingo, ha scelto la carriera di produttore, vincendo 8 Grammy.
Norman Granz, storico fondatore e motore della Verve, aveva l’abitudine di registrare tutti gli show che organizzava: «Quando abbiamo trovato i nastri di Berlino non riuscivamo a crederci, è una delle sue migliori esibizioni di sempre». Field non bara: la first lady della canzone sceglie perle dell’american songbook («Cheek to cheek», «Cry me a river», «Someone to watch over me», «Angel eyes», «C’est magnifique»...) e le cesella con sicurezza suprema, mandando in visibilio i presenti. Se il repertorio non è coraggioso, Ella lo anima con la spensieratezza di «He’s my kind of boy», lo scat di «Jersey bounce» e la vis di «Hallelujah, I love him so», vetta improvvisativa con omaggio all’arte di Ray Charles.
Poi c’è «Mack the knife»: Ella aveva presentato per la prima volta la perla di Brecht/Weill tratta dall’«Opera da tre soldi» proprio a Berlino, nel febbraio 1960, in un concerto alla Deutschlandhalle. Non ricordava bene il testo del brano, era incespicata nelle parole, aveva chiesto scusa ed era stata, eccome, perdonata dal pubblico che le aveva tributato il trionfo testimoniato in «Mack the knife: Ella in Berlin», uno dei suoi album più celebrati e venduti, vincitore di due Grammy. Due anni dopo rieccola, un mese prima del suo quarantacinquesimo compleanno, nella stessa città e pronta a cantare lo stesso brano, tradita, di nuovo ma diversamente, dalla memoria: «Signore e signori, che imbarazzo. È qui che ho cantato per la prima volta “Mack the Knife” e adesso nel momento in cui dovrei citare la città, ho un vuoto di memoria!», ammise. Un nuovo trionfo.
La sua voce ci arriva da quel lontano 1962 freschissima. Miracoli della sua ugola, certo, ma anche della tecnica: «La tecnologia mi ha permesso di lavorare su una registrazione multitracce partendo da quella originale, stereo. Ho lavorato direttamente sul suo canto divino, esaltandone la profondità, la definizione dei bassi, facendo risaltare meglio il lavoro del pianoforte e della batteria. Chi chiude gli occhi si trova Ella di fronte che sta cantando», assicura il produttore, che, tra i suoi ricordi ha cara la notte del 26 settembre 1991, quando era nella band che accompagnò Frank Sinatra al teatro grande di Pompei: «Stava cantando “New York New York” quando sul Vesuvio esplosero dei fuochi d’artificio».
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