Ex Otago: «Dai baretti ai palazzetti. E ora l'Ariston»

Ex Otago: «Dai baretti ai palazzetti. E ora l'Ariston»
di Federico Vacalebre
Lunedì 21 Gennaio 2019, 12:35 - Ultimo agg. 13:23
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Parola d'ordine: understatement. Che vuoi che sia se gli Ex Otago vanno a Sanremo? La stampa voleva da loro un soffio di indie pop spensierato e giovanilista, con «Solo una canzone» la band ha optato per una ballata sull'amore quotidiano, quello che non strappa più i capelli ed «ha bisogno di ordinaria manutenzione: è quello che viviamo tutti noi in questo momento, meno eroico dell'innamoramento, meno doloroso della fine di una coppia, spiega Maurizio Carucci, che quando non fa il cantante vive da contadino in una cascina della Val Borbera, al confine tra Liguria, Piemonte e Lombardia. I fan duri e puri non sono felici di vederli all'Ariston? «A chi ci dà dei venduti dico che ci sono un sacco di artisti indie che non parteciperebbero mai al Festival, alcuni molto più famosi di noi. Ascoltate loro, noi siamo gente semplice, che non ama giudicare, né creare barriere, che vuole cantare con tutti e per tutti», replica il frontman.
 



Già, ma cos'è poi questo suono indie che Maurizio ha portato al successo con il chitarrista-ricercatore di Storia dell'architettura Francesco Bacci, l'altro chitarrista-grafico Simone Bertuccini, il bassista-tastierista architetto Olmo Martellacci e il batterista-barista Rachid Bouchabla? «Boh, noi dal 2002 facciamo musica, a un certo punto hanno deciso di chiamarla così. Al di là delle etichette non siamo un gruppo che dai baretti è passato ai palazzetti, ma senza cambiare, e non cambieremo nemmeno per Sanremo: quel palco non ci fa paura, ma paurissima, cercheremo di viverlo come se fosse quello di un club, godendoci quest'edizione che apre le porte a noi, ai rapper, ai rocker, ai trapper, ai suoni che l'Italia giovane ama, produce, consuma, ascolta». Per essere scelti da Baglioni avevano presentato tre pezzi, uno «molto dance, sul piacere di starsene a casa la sera che, ormai, va di moda: is the new uscire, scriverebbero sul web, e un'altra più elettronica, parlava di bambini. Claudio ha selezionato il brano più intimo e onesto».

Per loro, che sono genovesi doc, Sanremo «era un mito a due passi da casa, un sogno irraggiungibile, un'offesa al suono che escludeva. Ora è diventato Ghemon, è Motta, è Zen Circus, un posto dove possiamo stare anche noi». E, soprattutto, un modo per allargare ancora la propria platea: in pieno Festival gli Otaghi, come si fanno chiamare, faranno uscire il sesto album, «Corochinato» (Garrincha dischi/Inri), «una bevanda che porteremo in sala stampa a tutti i giornalisti italiani. È un aperitivo tipico genovese da più di 100 anni, una miscela di vino bianco, erbe e spezie. È il bicchierino delle persone comuni come noi».

«Corochinato» arriva dopo un disco identitario come «Marassi», dopo il crollo del ponte, dopo il ventennale di De André: «Siamo genovesi doc, ma non aspettatevi un appello per la ricostruzione, quanto un sorriso e un suono che arrivano dalla città che non viene mai mostrata dai mass media.
Siamo cresciuti con Faber e la scuola genovese, ma i padri, anche quelli nobili, a un certo punto vanno mandati... a quel paese. Anche perché c'è una giovane scena importante, e non penso solo a Ghali e Tedua. Le ferite della nostra città sono tante, non si sono ancora chiuse quelle del G8 e di piazza Alimonda, e vicino a noi qualcuno vorrebbe costruire muri mentre crollano ponti». Insomma, tra Baglioni e Salvini scelgono il primo: «Genova, per la sua storia, è sempre stata e sempre sarà fonte di diversità». Non a caso loro sono pronti a raccontarsi anche con un docufilm, «Ex Otago - Noi siamo come Genova», prima di inaugurare, il 30 marzo, a Torino, il tour «Cosa fai questa notte?».

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