«Chiedi chi erano gli Squallor», te lo spiega Federico Salvatore

Federico Salvatore
Federico Salvatore
di Federico Vacalebre
Mercoledì 22 Luglio 2020, 22:08 - Ultimo agg. 23 Luglio, 07:19
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Ci ha messo più di un anno: nel giugno 2019 Federico Salvatore dava alle stampe (si fa per dire) la sua rilettura di «Curnutone», annunciando un album-tributo agli Squallor, divinità profana della trivial song, un elogio della summa pornoromantica elaborata dagli ormai defunti Daniele Pace, Giancarlo Bigazzi, Alfredo Cerruti e Totò Savio. Ora, e ci sarà anche il cd fisico, per la Zeus, è in arrivo (il 5 agosto) «Sta luna pare ‘na scorza ‘e limone», titolo rubato a «’O tiempo se ne va», che chiude il disco, divisa con Paolo Caiazzo, qui nelle vesti di improbabile fine dicitore di versi più che espliciti, da taccuino di vecchi sporcaccioni: quello erano gli Squallor, supergruppo da sala di registrazione formato da parolieri, compositori e discografici che hanno firmato la miglior (e peggior) canzonetta italiana, per diventare, in gruppo, «scurrilissimi versificatori, melodisti dall’insulto facile e dalla risata crassa, antesignani delle 50 (e più) sfumature di rosso».
Volgarissimi, certo, ma come la vita, come alcune delle cose più belle della vita, a partire dal sesso: «Sin dai tempi di “Azz” e “Il mago di Azz”, di “Incidente al Vomero”, dei miei dissidi interiori espressi come scontri tra le mie due anime, Federico e Salvatore, guardavo a quel mucchio selvaggio di erotomani come dei maestri inarrivabili», ricorda il cantattore, approdato alla canzone-teatro per tornare indietro, finalmente senza vergogna, fiero dei suoi j’accuse gaberian-deandreiani come di quando sguazza, con consapevolezza, nel trash.
Agli «inarrivabili» Squallor, però, Federico Salvatore non ci arriva solo adesso con il disco e gli arrangiamenti e la produzione di Pippo Seno, che aggiunge sciccherie di musica suonata davvero. «Totò Savio non poteva più sfoggiare il suo tono da carognone verace dopo un’operazione alle corde vocali, nell’ultimo disco aveva arruolato Gigi Sabani, e ora faceva un pensierino su di me. Ma si avvicinava il 1996, quello per me sarà l’anno di Sanremo, di “Fuori la porta”, e un altro Squallor, Giancarlo Bigazzi, non voleva che io perdessi tempo giocando, per lui dovevo concentrarmi su quel nuovo corso, sull’Ariston, sulla mia canzone. Gli diedi retta, declinai l’invito: aveva ragione, ma anche torto, visto che mi ha impedito di sentirmi, sia pur per poco, uno Squallor».
Squallidissimo, inteso come superlativo positivo, è ora il nuovo scintillio regalato a «Vafanculo cu chi vuo’ tu», «Jammucenne», «’Na sera ‘e maggio, n’addore ‘e rose» («A Marechiaro è nata sta passione/ manella int’o’ cazone, cuppulone cuppulo’./ I’ nun teneve manche è sorde pe’ magna’/ e lei diceva, si tu nun me vuo’ spusa, ca’ nun se chiava»), «’O ricuttaro ‘nnammurato» oltre ai brani già citati.
Canzoni maschiliste, eppure innamorate delle donne, dell’amore, del sesso, apostrofo a luci rosse tra rime improponibili. Canzoni sfogo di professionisti che armati di whisky e barzellette trashissime si sfogavano in studio di registrazione, senza essere mai apparsi in concerto. Canzoni che usavano con crudele padronanza il napoletano in anni in cui non era di certo di moda come oggi. Canzoni a cui Federico Salvatore aggiunge i suoi «inediti proibiti», altrettanto sporcaccioni, partendo da «’A livella int’’a saittella», che aggiorna a mo’ di tango i versi di Totò usando per nuovi protagonisti uno «strunzillo» di Posillipo e «’na merdella» della Sanità. Perché non solo la morte è una livella, ma... anche il cesso.
Ospiti Rosa Chiodo, Radice da «X Factor» e soprattutto Andrea Sannino («Palle a lutto»).

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