E i Led Zep rincomiciarono da «III»

Led Zeppelin, 1970
Led Zeppelin, 1970
di Federico Vacalebre
Giovedì 15 Ottobre 2020, 13:13 - Ultimo agg. 14:54
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Erano bastati due lp - «Led Zeppelin» e «Led Zeppelin II», entrambi usciti nel 1969 - per fare di Robert Plant (West Bromwich, 20 agosto 1948), Jimmy Page (Londra, 9 gennaio 1944O), John Paul Jones (Sidcup, 3 gennaio 1946) e John Bonham (Redditch, 31 maggio 1948 Windsor, 25 settembre 1980) una sensazione. Droghe, groupie, concerti che arrivavano a durare quattro ore dilatati da improvvisazioni mitiche capaci di tenere insieme il blues e James Brown, le classifiche americane ed inglesi guardate dalla cima, il suono hard rock che si trasformava in heavy metal dando il là al genere stesso... Per non cadere prigionieri di se stessi, per non clonare «Whole lotta love», per evadere da una routine dorata i Led Zep dovevano ricominciare da tre.
E lo fecero. Page e Plant, i due frontman ineguagliabili, si rintanarono con famiglie, famigli e cani a Bron-Yr-Aur, sperduta località del Galles. Un cottage immerso nel verde e i monti, senza elettricità. Il camino, le birre, il whiskey, le chitarre acustiche, i roadies che cucinavano e tenevano pulita (si fa per dire) la casa. Vennero fuori pezzi inattesi, «Led Zeppelin III» non andava nella direzione dura e pura attesa da milioni fans. I quattro lo registrarono in una villa di campagna, usando uno studio mobile, tenendo insieme l'hard e il blues e la psichedelia con abbondanti dosi di folk.
Folk? I Led Zeppelin folk? Proprio loro, i padrini dell'heavy metal? Quando «III» arrivò nei negozi, il 5 ottobre 1970, cinquant'anni fa, più d'uno ebbe da ridire. Se tre era il numero perfetto, così non sembrò l'lp ai primi recensori, l'incipit di «Immigrant song», destinato a diventare un classico della band, non bastava, non saziava la voglia di elettricità e rumore. Per qualcuno era un suicidio, artistico, commerciale. Ma quel disco era il ponte necessario, indispensabile, verso «IV», l'album del 1971, dell'apoteosi, della consacrazione, di «Black dog», di «Rock and roll», di «Stairway to heaven» (peraltro nata nelle session di «III»), della leggenda, insomma. Serviva diventare diversi, crescere, variegare l'offerta per mettere a fuoco quel suono così tellurico, feroce, implacabile che ha portato il Dirigibile nella mitologia del rock.
«III» era sì un disco ponte, ma non un banale lavoro di transizione. Plant urlava alla luna con vigore parossistico («Gallows pole») alzando la posta e iniziando a mettere nei testi, e non solo, la sua passione per il misticismo, la civiltà celtica, l'esoterismo. Page assaltava l'Olimpo chitarristico dando filo da torcere a Jimi Hendrix, Eric Clapton e Jeff Beck persino quando maneggiava la sei corde acustica, sfoggiando accordature strane. Heavy folk, in cui un banjo poteva fare più rumore e paura di una chitarra elettrica distorta, Bonham che pestava sui tamburi con inquietante ansia da prestazione, come un'ombra implacabile nel seguire i suoi partner, raddoppiata dai cupi bordoni del bassista, a tratti vestiti d'Oriente. «Since I've been loving you» registrata in presa diretta, blues poderoso e segno di continuità tra suoni retrò («Friends») e psycho-sorprese West Coast («Tangerine»).
Nella prima edizione sul vinile qualcuno notò dei graffiti: sul lato A, in corsivo, era scritto «So mete be it», sul B «Do what thou wilt». Unendole, prima la seconda frase e poi la prima, veniva fuori uno dei motti di Aleister Crowley, l'occultista di cui si era invaghito Page: «Fai quello che vuoi, così potrai essere». La prima tiratura dell'edizione italiana, invece, non aveva, chissà perché, la celebre copertina originale, opera di Zacron, al secolo Richard Drew, ma una provvisoria, con i volti dei Magnifici Quattro ed una scritta, con tanto di refuso: «Questa busta realizzata per soddisfare le pressanti richeste di questo attesissimo nuovo disco potrà essere sostituita presso i rivenditori con la busta definitiva in corso di preparazione». È diventata un pezzo da collezionismo, naturalmente.
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