Teresa De Sio e «Puro desiderio»:
«Vado dove mi porta il cuore»

Teresa De Sio 2019
Teresa De Sio 2019
di Federico Vacalebre
Giovedì 9 Maggio 2019, 08:46
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Un disco come «Puro desiderio» Teresa De Sio non l'aveva fatto mai, avendo scelto di nascondere se stessa dietro villanelle e ballate folk (rock), canzoni d'amore e di odio, tarante da brigantesse e pensieri profondi quanto collettivi e ribelli. «E se l'amore è il mio autista io vado dove va e chi se ne frega dove mi porterà» azzarda adesso, che il suo «libero cercare» l'ha condotta a scoprire se stessa, a raccontare se stessa, a mettere in discussione se stessa, scegliendo un suono in cui sapori etnici ed elettronici convivono con analogica sorpresa, come l'italiano e il dialetto, finora sempre da lei usati a fase alternata, mai insieme, nello stesso brano, come qui invece succede. «Questo è l'album della mia rinascita, una rinascita in cui non speravo più», spiega la sessantatreenne chanteuse: «Lutti e abbandoni sentimentali avevano fatto di me un deserto di emozioni, pensavo di non riprendermi più, di non poter più scrivere».
E invece...
«E invece ho scritto di me, mi sono trovata dentro le canzoni, invece di guardarle dall'esterno. Ci sono sentimenti, aneliti, desideri e bisogni miei più che storie, movimenti, considerazioni razionali».
Come insegna Vasco, ogni tanto bisogna spegnere il cervello.
«Proprio così, ci ho messo tanto, ma questo mi sembra un approdo, anche creativo, su cui vorrei proseguire».
Un «Puro desiderio» che cambia anche il sound, arrivando, forse non a caso, dopo un disco di transizione come quello dedicato a Pino Daniele.
«Forse mi serviva tempo per mettere a fuoco un nuovo orizzonte, di sicuro hanno contato molto i contributi di Francesco Santalucia, un giovane musicista che ha prodotto con me il disco, ma anche la fiducia mostrata nel progetto dal mio produttore Romeo Grosso».
Tra i brani-manifesto di questa vispa Teresa che va dove la porta il cuore c'è «Mia libertà».
«Quella è una storia anche della Teresa di prima, chi mi conosce sa quanto conti per me la libertà, come io la assuma come massimo valore. Posso immaginare di barattarla solo con una ricompensa straordinaria, con qualcosa di meraviglioso, ma finora non è mai successo che abbia trovato un valore che meritasse lo scambio».
«Tot le chanzòn», scritto in un esperanto maccheronico, è invece un gioco.
«Viene da uno spunto fornitomi da Peppe Voltarelli, è una Babele di pseudolingue sudiste, un gramelot in cui a un certo punto spunta il tedesco di ''Sag mir, wo die Blumen sind'', la versione tedesca di ''Where are all the flowers gone?'' di Pete Seeger cantata da Marlene Dietrich».
Dove sono finiti tutti i fiori, Teresa, i sogni, le rivoluzioni inseguite?
«Come le risposte alle domande che Dylan ci ha posto per primo, sono ancora nel vento. Non sono diventata sorda alle istanze politiche, resto dalla parte di sempre, ma mi sembra di dover ripartire da me, prima di tornare a usare il noi».
«Il pane della domenica» che chiude il disco è, però, un pezzo a suo modo engagé, un invito a un'ecologia, a una morale meno dissipatrice e consumistica.
«Lo spunto risale alla mia collaborazione con Giovanni Soldini: lui mi ripeteva come un tozzo di pane raffermo e un pugno di riso su una barca in pieno oceano siano cose meravigliose. Ecco, mangiare il pane della domenica, giorno in cui non si dovrebbe panificare, è un modo di sottrarsi al consumismo folle che nulla consuma davvero ma consuma il pianeta, la madre terra».
«Quante nuvole» e «L'amore, l'attimo il treno» sono tra le perle di un disco baciato dalla grazia. «In un soffio di vento» sfoggia, leggera e illuminata, la voce di Ghemon.
«Quanto è bellillo lui! Mi piace come artista e come persona, e mi assomiglia pure nella ricerca di continue novità, ma è favorito rispetto a me: è più giovane».
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