Dai matrimoni ai grandi palchi, fenomenologia di Ricciardi

Franco Ricciardi
Franco Ricciardi
di Federico Vacalebre
Sabato 6 Luglio 2019, 08:00 - Ultimo agg. 7 Luglio, 21:39
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Titolo e canzone ribadiscono: «So semp chille», scritto con il napoletano poco letterario che unisce i neomelodici ai trapper, «Mia cugina» a «'A verità», le feste nuziali in cui spopola ai due David vinti. Francesco Liccardo, in arte Franco Ricciardi, classe 1966, da Secondigliano («167», scandisce un suo inno pre-gomorrista) si mostra per quello che è nel bel docufilm di Paolo Montesarchio, presentato ieri in anteprima all'«Ischia film festival» che chiude stasera i battenti. Lui non c'era, doveva esibirsi dalle parti di Caserta.

Protagonista e narratore persino sorpreso degli oltre trent'anni raccontati per suoni e immagini, con qualche reperto d'epoca e molto girato recente, Franco nasce «dentro il vulcano» della nuova canzone popolare napoletana che chiamammo neomelodica per avvertire affinità e divergenze da quella classica e più di tutti i suoi compagni di cordata del tempo - persino il futuro campione di vendite Gigi D'Alessio - è così intrinsecamente «pop» da spostare da solo il genere dalla periferia della canzone italiana al suo centro, che non ha ancora espugnato come meriterebbe, però.

Il regista - nel documentario prodotto da Rai Cinema, con Gaetano Di Vaio per Figli del Bronx ed Eduardo Angeloni - lo segue in presa diretta, non cerca il colore da boss dei matrimoni, anche se ne riconosce l'esistenza, lascia al cantante la possibilità di usare l'arma dell'ironia per decrittare la violenza del suo quartiere, ma anche la violenza con cui viene raccontato il suo quartiere. Settimo degli otto figli di un venditore di palloncini a Edenlandia, lo vediamo in studio, sul palco, agli esordi, in duetto con Maria Nazionale, con il fido Ivan Granatino e gli amici rapper, con i 99 Posse rileggere «Cuore nero» che fu il primo punto di svolta del piccolo mucchio selvaggio neomelò, canzone antirazzista nata per rispondere alla vecchia Lega, per dire che non necessariamente la canzone popolare partenopea doveva essere reazionaria. La sua non è una favola, ma qualcuno potrebbe raccontarla così.

Senza alcuna tentazione sociologica né ricorrere a troppi endorsement - e si che ormai se lo sarebbe potuto permettere, nel mondo della musica come del cinema - Ricciardi lascia che sia Peppe Lanzetta a dargli il primato di voce del Bronx postdatato, ricorda esattamente quando ha capito di avercela fatta: era il 17 maggio 1987, Napoli festeggiava il primo scudetto, e lui pure, ma aveva anche undici feste di piazze da onorare, tutti impazzivano per una sua canzone, «Ed ora piove», Maradona andava festeggiato con il brano giusto, il suo, almeno nei quartieri e nei paesi più popolari.

Nelle prime apparizioni in Rai, giovanissimo, è ingenuo e spaesato, molto più a suo agio quando può cantare, su una sedia come da ragazzino o su un megapalco non fa differenza garantisce lui, ma poi confessa il piacere di quel mitologico atterraggio con l'elicottero al Palapartenope, quando aveva bodyguard a proteggerlo da fans sin troppo esplicite. Come quelle tratteggiate in «Mia cugina», spiegata come un'inevitabile educazione sessuale non autobiografica solo «perché le mie cugine sono tutte brutte».

Ironico, sincero almeno all'apparenza, capace di ritornare nei vicoli quando ha espugnato palchi e premi importanti, desideroso di restare a contatto con la gente dei vicoli, il ragazzino che aveva iniziato intonando «Papà e Natale» di Patrizio è diventato, con brani come le ormai antiche «Treno» e «Prumesse mancate» e le più recenti «'A storia e Maria» e «'A verità» una delle presenze più importanti, e moderne, anche se con radici nella tradizione, della canzone newpolitana. «L'arte vera è quella trasparente non la puoi mai vedere, se ce l'hai arriva così senza filtri, io arrivo direttamente alle persone, a quella gente», spiega lui, che un tempo i bravi borghesi vomeresi e posillipini snobbavano, ma ora applaudono, e non solo perché il docufilm che ne racconta la fenomenologia ha ricevuto anche l'attestato di interesse culturale da parte del ministero dei Beni Culturali.

Forse il titolo - «So semp chille» - è una dichiarazione di appartenenza - a una città, a un popolo, a un suono - di cui non abbiamo più bisogno: Franco può volare alto, andare dove vuole, suonare come vuole (D-Ross, Start-U-ffo e lo stesso Granatino sono pronti a seguirlo).

E qualcuno deve riconoscergli anche il merito di aver preparato la strada al suono urban newpolitano di Liberato, liberando la canzone napoletana da paure e sensi di colpa. Anche nel look, certo.

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