Ultimo tango per Gato Barbieri, addio al sax latin jazz di Bertolucci e Pino Daniele

Gato Barbieri
Gato Barbieri
di Federico Vacalebre
Domenica 3 Aprile 2016, 11:56 - Ultimo agg. 19:16
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Negli ultimi anni ogni suo assolo, dal vivo o su disco (nel 2011 aveva collaborato con la napoletana Letizia Gambi, ad esempio), era ascoltato dai fans con melanconica ammirazione, col timore che potesse essere l'ultimo. Gato Barbieri è morto sabato, a 83 anni, nell'ospedale di New York dov'era ricoverato. In novembre l'avevamo visto premiato ai Latin Grammy, stanco e piegato dal male, ma mai domo: «Bisogna fare pratica, fare pratica e fare pratica», il consiglio che aveva lanciato ancora una volta ai giovani musicisti con cui suonava ogni volta che poteva: «Sono nuovi, mi spingono verso nuovi approdi».

Argentino come Lalo Schifrin con cui mosse i suoi primi passi, ma di Rosario, figlio di un carpentiere, Leandro era diventato «el Gato» per la velocità e il passo felpato che aveva nel muoversi - nella stessa notte - da un club all'altro. Sassofonista - ma allo strumento era arrivato dopo aver studiato il clarinetto - si era forgiato negli anni ribelli e militanti del free con Don Cherry, chiedendo al suo tenore - ma era partito dall'alto - note ribelli e contro. Le aveva trovate ma, soprattutto, aveva portato nel jazz la cultura e il suono della sua terra: il suo sax era latino, fiero, romantico, appassionato. Il suo suono inconfondibile sin dalle prime note. Aveva girato il mondo cercando la sua strada, che l'aveva portato a Roma nel 1962 con la prima moglie, Michelle: ci si era trovato bene, tra amico come Enrico Rava e Franco D'Andrea e turni da session man: suo l'assolo in «Sapore di sale» di Gino Paoli, arrangiamento di Ennio Morricone. Il cinema lo attraeva ed era perfetto per il suo tono caliente, testimoniato in «Prima della rivoluzione» di Bertolucci, «Una bella grinta» di Montaldo, «Appunti per un'Orestiade africana» di Pasolini e, naturalmente in «Ultimo tango a Parigi» ('72) in cui soffiava sui corpi nudi e scandalosi di Maria Schneider e Marlon Brando temi di struggente sensualità, di carnalità malinconica, di scabrosa intensità.

Il successo di quella partitura lo spinse verso una stagione sempre più orgogliosamente latina iniziata probabilmente nel fatidico '68 al fianco di Dollar Brand, e proseguita con album manifesto come «Fenix», «Under fire», «El Pampero», «Bolivia», i capitoli della serie «Chapter»: «Latin America», «Hasta siempre» e «Emiliano Zapata», titoli che dicono del suo impegno politico almeno quanto l'incontro con la Liberation Music Orchestra di Charlie Haden. Jazzista irregolare e cane sciolto, era convinto che la musica fosse l'arte dell'incontro ed aveva marchiato col suo sax pagine importanti di Carlos Santana, di Antonello Venditti (l'assolo in «Modena») e dell'amico Pino Daniele, che lo volle in «Ferryboat» nei brani «Che ore so» e «Amico mio» e poi nel tour testimoniato dal live «Scio'» (splendido il suo contributo a «Chi tene 'o mare»), e poi partecipò al suo «Apasionado». Ma tra i suoi incontri vanno ricordati anche quelli con Miles Davis e Ivan Lins, Herp Albert e Gary Burton. Steve Lacy e Airto Moreira. «Suonare con gli stessi musicisti ogni volta ti porta a un livello e io ho bisogno di provare nuove cose», sosteneva: «Ho bisogno di spunti che mi facciano muovere. Parto dalla melodia, che è il cuore pulsante di tutto, ma sperimento ritmi diversi. Amo fondere la musica internazionale con quella latino-americana». Anche se, forse, aveva iniziato a farlo per caso, anzi per forza: «Durante il regime di Peron non avevamo il permesso di suonare solo jazz, dovevamo mettere in scaletta anche cose tradizionali. Così suonavamo tango e pezzi come ''Carnavalito''».
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