Giorgia al teatro San Carlo di Napoli: «Volevo smettere, ora mi aspetta il teatro più antico d'Europa»

«Avrei voluto mi vedesse Pino Daniele. “Non fare cose di cui potresti pentirti”, mi diceva, invitandomi a cantare sempre con il cuore e meno con la voce»

Giorgia sul palco dell'Ariston
Giorgia sul palco dell'Ariston
di Federico Vacalebre
Lunedì 27 Febbraio 2023, 07:00 - Ultimo agg. 28 Febbraio, 07:10
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«Non so se io sono degna del più antico teatro lirico d'Europa», dice Giorgia a proposito del suo tour al via il 2 maggio appunto dal San Carlo, «ma so che ho trovato del tutto inappropriate le polemiche per la presenza di Paolo Conte alla Scala? Inadatto lui? Ma dovremmo dirgli tutti grazie mille volte al giorno per le cose che ha scritto, per la classe con cui le ha cantante, per l'ironia sorniona che ha messo nella canzone italiana».
Beh, Giorgina, partiamo da qua. Dal tuo giro per i teatri lirici d'Italia (la Scala non c'è) che inizia da Napoli.

«Ho capito che cosa volesse dire cantare in un teatro simile solo l'anno scorso, quando mi sono esibita alla Fenice di Venezia in una serata per Dior. Manco dai teatri da quando ero ragazzina, ormai ho superato il mezzo secolo e, posso anche dire che i palazzetti dello sport sono importanti per il rapporto con il pubblico, ma non sono i posti più belli, nè quelli che suonano meglio del mondo.

Se penso al San Carlo, se penso che ci sono passati Callas e Caruso e anche il maestro Conte ben prima che a Milano.... Ecco, Napoli non si chiude mai, apre le sue porte, lo fa anche con me. Canterò nei teatri più belli cercando una dimensione da club, guardando negli occhi il pubblico. Sarà un'alternanza di elettronico e acustico, ma sempre con rispetto, portando con me sul palco anche Andrea Faustini e Diana Winter. Una serata intima. Mi consegno al pubblico partenopeo, che può tutto: ha il mio cuore».

Intanto, dopo il ritorno a Sanremo e il sesto posto con «Parole dette male», è uscito il nuovo album, «Blu¹». Iniziamo dall'Ariston, però: soddisfatta del ritorno 22 anni dopo? Ti davamo tra i favoriti, ma....
«Ma la gara vera è quella che ho fatto, e faccio ogni giorno, con me stessa, con le mie paure, con le sorprese del nostro quotidiano. Avevo persino pensato di ritirarmi, mi sembrava ormai di aver fatto quello che dovevo fare, cantare mi era diventato difficile».

Poi?
«Poi, dopo il lockdown, la pandemia, la reclusione, il tunnel... mi sono accorta che c'ero ancora, che c'era ancora da fare. Mi sento libera, con l'esigenza di soffermarmi sulle parole più che sulle note. Ho deciso di cantare meno, non mi interessa più dimostrare quello che so fare. E ritorno alle mie origini black: soul, funky, r'n'b', hip hop».

Eravamo all'Ariston.
«Amadeus mi ha convinta e ha scelto il pezzo che più gli piaceva del disco: sapevo che era difficile, inadatto a una competizione, ma volevo essere coerente con il nuovo corso e dargli l'esposizione che merita. Sono partita da quel palco, lì c'è un bel pezzo della mia vita, ci sono tornata, mi sono goduta ogni singolo momento, lasciando perdere quelli che se la prendono per i fiori maltrattati o un bacio tra uomini».

Ti sei goduta, soprattutto, il duetto con Elisa.
«Sì, siamo complementari e quello è stato davvero un momento magico, alla faccia di quelli che mi avevano fatto venir voglia di smettere: produttori, discografici che mi volevano far duettare con il ragazzino del momento, fidanzati, dotti, medici e sapienti».

La vittoria di Mengoni con «Due vite»?
«Meritatissima. Gli voglio bene, ricordo quando incidemmo insieme “Come neve”. Ogni tanto mi ricorda Alex, i suoi colori, i suoi modi».

Baroni nel disco esce fuori in «Tornerai», scritto con Francesca Michielin.
«Sì, cito la sua “Onde”. Alex c'è sempre».

Il nuovo corso è targato Big Fish.
«Senza di lui non sarei andata nemmeno a Sanremo. Mi ha fatto da produttore, direttore d'orchestra, incoraggiatore verso questo ritorno alle origini. Il disco suona soul anni 90, penso ai lavori di Whitney Houston, ma è anche una sfida: ho fatto la cantautrice, ho lavorato con un cast autorale composto da Elisa, Dardust, Jake La Furia, Ghemon, Sissi, Jacopo Ettorre, Alberto Bianco e Francesco Roccati. Poi c'è Paolo Baldini nel reggae “Sì o no”. Il brano di Mahmood, che non è stato facile per me: ai giovani una certa scansione delle parole viene spontanea, io giovanotta non sono più. E un omaggio a Joe Cassano, tra i padri del rap italiano, in cui spunta Gemitaiz».

Quanta gente! «Sè», però, è tutta farina del tuo sacco.
«Mi è venuta per grazia divina mentre litigavo con pianoforte e computer: è una ballad 2.0. Dai tempi di "E poi" ho scritto diversi brani, ma molti non mi considerano una cantautrice».

La musica sta cambiando, anche quelle nera.
«Mi piacciono i ragazzi, Sanremo mi ha regalato l'amicizia con Lazza, per cui impazzisce mio figlio. Io ho scoperto il suono black con mio padre, ma so che la musica deve sempre cambiare».

«Meccaniche celesti» apre il disco con una sorta di omaggio a Battiato.
«L'ho finito il giorno che Franco è morto. Ecco, uno come lui alla Scala o al San Carlo ci sarebbe stato benissimo».

Null'altro da dichiarare su Sanremo?
«Mi sarebbe piaciuto incontrare Anna Oxa, l'avrei ringraziata per i fiori che tanti anni fa mi fece trovare nel camerino. Ah: dopo il Festival ho telefonato a Pippo Baudo: “Giorgina, sei sempre brava”, mi ha detto come un secondo papà, commuovendomi. Gli devo tanto».

Anche a Costanzo?
«Meno, ma fu il primo a portarmi in tv al suo talk show, dopo il mio primo Festival. Mi chiamò per farmi esibire con un sassofonista, Steve Grossman. Concepì anche la dimensione artistica. Lui ha sempre cercato nuovi talenti da lanciare. Mi incuteva lo stesso timore di Pippo, aveva un carisma pazzesco. Non lo vedevo da tanto anche se ci scambiavamo notizie e auguri attraverso Maria De Filippi».

Chiudiamo con il San Carlo.
«Avrei voluto mi vedesse su quel palco Pino Daniele. “Non fare cose di cui potresti pentirti”, mi diceva, invitandomi a cantare sempre con il cuore e meno con la voce. Sto imparando, sai Pino?». 

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