Ivan Graziani vent'anni dopo

Ivan Graziani
Ivan Graziani
di Federico Vacalebre
Martedì 31 Gennaio 2017, 17:43
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Anche oggi che l’industria del caro estinto tira forte e ancor più l’arte social della celebrazione di ogni anniversario, Ivan Graziani non è stato ancora riscoperto, com’è successo invece, fortunatamente sia chiaro, per Rino Gaetano. Come lui, il cantautore di Teramo (6 ottobre 1945–1 gennaio 1997), in vita fu vittima di un pregiudizio politico: i suoi testi, tranche de vie spesso narrate in prima persona, sembrarono poco «militanti» ai signori dell’ortodossia collettivista. Ben venga, allora, «Rock e ballate per quattro stagioni», cofanetto curato da Daniele Mignardi a cui ha collaborato la vedova Anna Bischi Graziani: 46 canzoni spalmate in tre cd, due con successi e rarità e un terzo che recupera «Per sempre Ivan», album postumo voluto da Zero con duetti (Venditti, Antonacci, Tozzi, il figlio Filippo Graziani e Alex Baroni).
Ma più delle rarità, delle chicche, dei disegni del cantautore con la passione per i fumetti, del ricordo di Tonino Guerra, conta il cuore dell’opera di Graziani, con il suo falsetto assassino quanto la sua chitarra, tra le cose più rock che la canzone d’autore italiana avesse fino ad allora, e forse anche dopo, messo in campo: «Ballata per 4 stagioni», «Firenze (canzone triste)», «Lugano addio», «Monna Lisa», «Fuoco sulla collina», «Pigro», «Paolina», «I lupi»... sono perle che non meritano l’oblio in cui sono finite nel paese che non ha più interpreti, se non quelli omologati dei/dai talent show. Canzoni tenere, o a volte grezze e roventi, che dicono di contrabbandieri, labbra gonfie e seni pesanti, studenti in filosofia, borghesi dalla parolaccia facile, donne facili prigioniere di vite difficili...
Si pensi a «Agnese dolce Agnese» del 1979: la melodia ricorda quella di «A groovy kind of love» del ‘65, già ripresa in Italia dai Camaleonti («Non c’è più nessuno») e poi da Phil Collins, e come quella veniva dal rondò della Sonatina op. 36 n. 5 in Sol maggiore di Clementi; e l’incipit, «se la mia chitarra piange dolcemente», è un omaggio al George Harrison di «My guitar gently weeps». Ma quanto era potente, e persino rivoluzionaria, e quanto non lo capimmo in tempo, quella storia d’amore non consumata con una «che la dava a tutti», sul sui corpo fantasticavano tutti. E quant’era «alternativo» quel povero io narrante che si accorgeva, tanti anni dopo, di non averla mai nemmeno baciata quell’allegra bellezza che meritava una canzone triste triste triste. Bella bella bella. Non è mai troppo tardi, nemmeno vent’anni dopo.

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