Jim Morrison, il ricordo di Patti Smith: «Mi mostrò la strada, rock e poesia»

Jim Morrison, il ricordo di Patti Smith: «Mi mostrò la strada, rock e poesia»
di Federico Vacalebre
Sabato 3 Luglio 2021, 07:54 - Ultimo agg. 4 Luglio, 10:54
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«Quelli che dicevano che Jim Morrison non era morto non sapevano quello che dicevano, però in qualche modo avevano ragione, più di noi che piangevamo per la sua morte. Non possiamo dire altrimenti, se, a 50 anni dalla sua scomparsa, siamo qui a parlare della sua vita che continua: ovvero della sua voce, della sua musica, della sua poesia, dei suoi dischi che la gioventù di oggi ascolta sul web». Patti Smith ripassa attraverso le famigerate «porte della percezione» per ricordare quel 3 luglio 1971 in cui il leader dei Doors fu ritrovato cadavere nella vasca da bagno della sua casa parigina.


Allora, Patti, stando al suo assunto sono vivi anche tutti gli altri iscritti al «club dei 27»: Robert Johnson, Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Kurt Cobain, Jean-Michel Basquiat, Amy Winehouse...
«Loro sono davvero tutti vivi, tant'è che andiamo sulle loro tombe per sentirci motivati verso i nostri domani. Ma Jim... Jim è una storia speciale, non è vivo nella nostra memoria solo perché è morto che era giovane, bello, fottuto sciamano della poesia che esplodeva nei nostri corpi prima che nelle nostre menti».


Sin dagli esordi da madrina del punk lei citava James Douglas Morrison, così all'anagrafe, come un suo ineludibile punto di riferimento.
«La prima volta che ho visto i Doors ho pensato: Lo posso fare anche io, lo voglio fare anche io.

Era il 1967, ero una ragazza del Sud Jersey che lavorava in una libreria e non sapeva se era carne o pesce e, improvvisamente, capiva però di essere rock, di essere poesia. O, perlomeno, che voleva diventare rock, voleva diventare poesia. Jim era un ponte sensuale tra la letteratura e l'orgia musicale, tra il verso detto e la parola cantata».


Jim la illuminò, le mostrò la strada, insomma.
«Era uno dei grandi poeti del suo tempo, guidava una band dal suono unico, era un animale da palcoscenico».

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Ha fatto in tempo a incontrarlo dopo quel concerto.
«Ero un'aspirante poetessa a New York, stampavo da sola le mie liriche, avevo seguito la strada che mi aveva mostrato. Credo che fosse il 1970, e andai a un party dei Doors per la stampa soltanto per scroccare un po' di cibo, non me la passavo molto bene. Mi ero portata una borsa, volevo fare il carico di stuzzichini ed andare via, non amavo quelle esibizioni di vanità mondana. C'erano tavolate di cibo e drink, stavo per fare la mia razzia con Robert Mapplethorpe quando sentimmo una voce inconfondibile esclamare, forse prendendoci in giro: Sono buoni questi hamburger: c'era Jim accanto a noi. Dividemmo il cibo, due chiacchiere e i nostri sogni. Pochi lo sanno, ma era anche un uomo molto divertente».


Eppure pochi mesi dopo sarebbe andato incontro all'autodistruzione, a morire ad appena 27 anni.
«Erano tempi rischiosi, maledetti, siamo sopravvissuti per caso a noi stessi, piangendo fratelli, mariti, mogli, maestri che avevano osato appena un pizzico più di noi, che erano stati soltanto più sfortunati di noi».


Ha scritto una canzone per lui, gli ha dedicato dei versi, è andato a trovarlo nel cimitero parigino del Père Lachaise.
«È vivo, glielo ho detto, nel senso che è vivo l'impatto che ha avuto in me, in tanti di noi».


È vivo anche in «Break it up», un brano del suo primo album, «Horses», scritto con Tom Verlaine dei Television.
«Avevo fatto un sogno in cui mi era apparso. Ero stata da poco sulla sua tomba ed eccolo che mi appariva su di una lastra di marmo. Era vivo e con delle ali, imprigionate nel marmo. Volevo aiutarlo, liberargli le ali e, cantando, riuscivo nel mio intento, lo vedevo andare via».


È andato via, ma è rimasto. Che cosa di Morrison può ancora parlare ai ragazzi dei giorni nostri?
«Tutto, da Light my fire a Riders on the storm, da Break on through (to the other side) a Love me two times. Ma dobbiamo parlargli del Re Lucertola, fargli conoscere lo sciamano che si abbassava i pantaloni sul palco per offrire il suo sesso come comunione profana a una gioventù che voleva cambiare il mondo partendo dal corpo. Il re della trasgressione, l'agnello sacrificale di una generazione senza pausa, la voce calda di un angelo caduto sulla terra, di un diavolo che voleva conquistare il cielo. Attorno a lui c'erano le tastiere di Ray Manzarek, la chitarra di Robby Krieger, la batteria di John Densmore, il suono dionisiaco dei tempi che stavano cambiando. Lui era il rock and roll che si faceva poesia, era Pasolini che incontrava Presley, era l'uomo che cantava The end e intravedeva la fine mentre diceva al padre che voleva ucciderlo, alla madre che voleva fotterla. Era un poeta ebbro come Rimbaud, era elettricità pura, adrenalina pura ma anche oppio, era un ragazzo bellissimo che si era gonfiato d'alcol, droghe e troppa vita, e di nuovo mi viene in mente Elvis. Era davvero pronto a varcare le porte della percezione».


C'è, comunque chi sostiene che sia vivo davvero. Di averlo intervistato negli anni Ottanta, di averlo incontrato in banca, nella sua nuova vita di pescatore alle Seychelles, sul palco mentre nei panni di uno sconosciuto ospite accompagnava Bette Midler.
«Oh, ma è stato tante volte anche sul mio palco, nel mio microfono, nella mia voce, nei miei sogni, nei miei bisogni. Il rock e la poesia fanno miracoli. Jim è tra i miei santi preferiti».

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