John Lennon 40 anni dopo: così presente così assente

John Lennon 40 anni dopo: così presente così assente
di Federico Vacalebre
Martedì 8 Dicembre 2020, 00:38 - Ultimo agg. 16:02
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All'overdose di libri pubblicati in Italia, ma anche nel resto del mondo, per ricordare i quarant'anni dall'assassinio di John Lennon (9 ottobre 1940-8 dicembre 1980) fa da contraltare pochissima musica, appena un'antologia, «Gimme some truth», senza inediti e peraltro uscita per celebrare un altro anniversario tondo, gli ottant'anni mai compiuti.

Perché Lennon, come De André in Italia, è ridotto a un santino: la sua portata - musicale, poetica, personale, politica - sarebbe ancora dirompente, eversiva, persino più di ieri quando si era abituati - almeno se stavi da una «certa» parte - al politicamente scorretto, all'iconoclastia, alla non ricerca del consenso ad ogni costo.

Per disinnescare un processo forse ormai inevitabile, come la perdita di memoria e di senso nel mare magno dell'amarcord dei social, bisognerebbe ripartire dalle canzoni di Lennon, che chissà come sarebbe arrivato ad oggi, nonno freak, supernonno revivalista, reduce pacificato, o, ancora e sempre, «Working class hero»? 

Canzoni che oggi, alle 18, risuoneranno sulla pagina Facebook di Andrea Scanzi dal teatro Metropolitan di Piombino, affidata ad artisti di diverse provenienze, stili, età, che rileggeranno un canzoniere pregiato, prezioso, feroce, ribollente, cercando di evitare le tentazioni omologate ed omologanti del karaoke da talent show.

Sono annunciati duetti sospesi tra Napoli e Santa Fe (Edoardo Bennato con Jono Manson), il Piemonte e il Texas (Alberto Fortis con Patricia Vonne Rodriguez, sorella del filmaker Robert Rodriguez), la Romagna e New York (Filippo Graziani con The Rad Trads). Ma ci saranno anche Andy dei Bluevertigo, Francesco Baccini, Alex Kid Gariazzo Smallable Ensemble, Bocephus King & Flophouse Jr da Vancouver, il giovane cantautore piombinese Dario Canal, Eileen Rose e Rich Gilbert da Boston, James Maddock con Brian Mitchell e Immy dei Counting Crows da New York, Joe Bastianich (?) con Edo Ferragamo, il regista Giovanni Veronesi insieme alla band grossetana Musica da Ripostiglio, Roberta Finocchiaro con Mario Biondi, Skye Wallace.

Chi c'era, quell'8 dicembre 1980, ricorda benissimo dov'era quando lo raggiunse la notizia: «Hanno sparato a John», «un pazzo ha ucciso Lennon». Perplesso e attonito, il mondo al nunzio stette, poi divi del rock e del cinema assunsero guardie del corpo per proteggersi e la musica che era nata per esprimere l'esuberanza e il disagio giovanile scoprì di aver perso la verginità (e quello ci poteva stare, finalmente non era più un valore) ma anche l'ingenuità, la spontaneità. Ci cercammo con gli amici, beatlesiani e rollingstoniani come ci si divideva allora, e forse ancora oggi, ma comunque rockettari. Peppino Di Capri, che nel 1965 fece da supporter all'unico tour italiano dei Fab Four, ricorda che «in quel momento morì anche la speranza di una riunione dei Beatles». 

Ma più che dei fantastici Beatles quel 1980 e gli anni a venire che ora guardiamo con tenerezza avrebbero avuto bisogno dello scomodo John di «God», che sapeva almeno in cosa non credeva: non in Dio certo, ma nemmeno in Elvis, in Zimmermann (ovvero il supremo Dylan), nei Beatles: «Credo appena in me, in Yoko e me». Sembra che Mark Chapman fosse egualmente sconvolto dal suo non credere in dio e negli Scarafaggi: «Volevo proprio urlargli in faccia chi diavolo si credesse di essere, dicendo quelle cose su Dio, sul paradiso e sui Beatles! Dire che non crede in Gesù e cose del genere. A quel punto la mia mente fu accecata totalmente dalla rabbia», raccontò dopo aver sparato quattro colpi alla schiena e uno all'altezza dell'aorta del divo davanti la sua abitazione, il lussuoso Dakota Building, sulla 22ma strada, nell'Upper West Side di New York. Mentre Lennon moriva tra le braccia della Ono lui, prima di scappare, si mise a leggere Il giovane Holden.

«Double fantasy» era appena uscito, il presunto fan aveva in mano la copertina da farsi autografare, ci riuscì, poi attese che il musicista rientrasse per ucciderlo. Perché, poi, non si è davvero capito più di tanto: «Mi sembrò l'unico modo per liberarmi dalla depressione cosmica che mi avvolgeva. Ero un nulla totale e il mio unico modo per diventare qualcuno era uccidere l'uomo più famoso del mondo», tentò di spiegare una volta.
Forse John non era l'uomo più famoso del mondo ma di sicuro resta più vivo di quanto Mark Chapman, ancora in prigione, sia mai stato. Anche se, alla sua maniera, ha scritto il suo nome nella Storia. 

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