Luche': «Il mio disco tra rap, Gomorra e malammore»

Luche', al terzo album solista
Luche', al terzo album solista
di Federico Vacalebre
Sabato 9 Luglio 2016, 15:01
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Luca Imprudente, per tutti Luche’, è a New York, «volevo godermi una vacanza, ma visto che sto pensando di aprirmi un ristorante qui ne approfitto per fare due sopralluoghi», spiega al telefono: «Quando si sono sciolti i Co’Sang ho avuto un periodo buio e ho deciso di provare un’altra strada, con una piccola pizzeria a Londra. La ristorazione mi diverte, la musica invece, mi fa soffrire: la prima è come il sesso occasionale, che ti piace e ti soddisfa, senza causare problemi. La seconda non può non causarti pene, perché è un amore».
Un amore, anzi un «Malammore», come il titolo del terzo album solista del rapper di Marianella, dopo «L1» e «L2»: «Quella parola è il primo tatuaggio che mi sono fatto, avevo 17 anni e ora ne ho 13, era il titolo del primo pezzo scritto con ‘Nto, anche lui ha quella scritta sul corpo. Il brano è rimasto nel cassetto, ma la parola è tornata spesso: nel ritornello di una canzone per noi importante come “Int’o rione”, nel titolo di un duetto di Franco Ricciardi con ‘Nto. Poi in tv è sbucato il cattivissimo di “Gomorra”. Per me ora è il termine adatto per raccontare l’anno cupo che ho attraversato», racconta l’uomo della poesia cruda, la voce del ghetto che non vorrebbe restare tale, «ma il ghetto tutti noi lo abbiamo nella testa e nel cuore prima ancora di nascere».
«Malammore» è un disco feroce, dove al rapper di strada duro e cattivo, dove alle rime veraci e feroci, dove al primato da ribelle senza causa nè pausa, Imprudente affianca una sorprendente confessione di fragilità: ci sono canzoni d’amore in cui agli adulti può toccare solo l’adulterio, dove un lui ammette di essersi messo nudo in ginocchio davanti a una lei, dove un amante cerca di spiegare alla donna perduta da dove viene e perché non è riuscito a darle quello che voleva, dove un uomo deluso sogna bambini da crescere in un altro modo e mondo. I beat, le basi, i groove sono affilati, stavolta italiano e napoletano sono alternati con eguale padronanza, eguale maestria. E il ragazzo «violento» che faceva paura alle major è approdato alla Universal.
«Siamo tutti violenti e teneri, non c’è bisogno di tirare in ballo Che Guevara e la lettera ai figli», ricorda lui, «soprattutto noi del pianeta hip hop, che facciamo gli spacconi e i numeri 1 perché siamo nati in posti dove pensi sempre di essere solo e soltanto uno zero». In «Bello» c’è Guè Pequeno, in «Fin qui» Coco, in «Stesso viso» Da Blonde, in «Quelli di ieri» Baby K, mentre «Non mi va» è una sin troppo rispettosa cover di Vasco Rossi. «Quando rappo che vendevo roba per strada non penso a quando da ragazzino spacciavo erba per comprarmi la prima strumentazione, non mostro il volto da gangsta, ma ricordo che ho fatto l’ambulante di strada, ho venduto palloncini, ho girato per fiere. Oggi ho la musica che mi permette di esprimermi, di dire cose che hanno in testa e nel cuore anche tanti altri ragazzi come me, ma ho pure altre via da praticare per il mio futuro. Vivo tra Londra, dove mi porta il mio lavoro e Marianella. “Gomorra”? Saviano è stato uno dei primi estimatori dei Co’Sang, poi tra noi c’era stata qualche incomprensione, ma è acqua passata. “’O primmo ammore” era nella colonna sonora della decima puntata della serie tv, mi piace come prodotto, ma... In Italia “Gomorra” esiste solo il sabato sera, con la messa in onda, a Scampia impazza tutti i giorni e non cambia niente».
E lo stato del rap italiano? «Come inevitabile, la bolla si è sgonfiata, resterà chi merita. Io preferisco costruirmi uno zoccolo duro nell’underground: il successo di chi passa per Sanremo e talent show può essere effimero».
 
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