«Più amore e meno odio
Ma resto sempre Maldestro»

Maldestro
Maldestro
di Federico Vacalebre
Giovedì 23 Marzo 2017, 15:34 - Ultimo agg. 25 Marzo, 19:57
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Il difficile secondo album - di solito il primo nasce di getto, contiene materiali accumulati negli anni - per Maldestro è stato una passeggiata: «Lo avevo pronto prima di andare a Sanremo, l’unico problema è stato scegliere tra le 67 canzoni che avevo scritto nell’ultimo anno. E quando ho scelto quelle da registrare ne sono arrivate altre tre, composte sul momento, che meritavano di uscire». Dieci, alla fine, i pezzi che sono finiti in «I muri di Berlino» (Arealive/Warner»), nei negozi da domani, a dare sostanza al cantautore napoletano arrivato secondo tra i Giovani all’Ariston, facendo incetta di premi collaterali, a partire dal più prestigioso, quello della critica intitolato a Mia Martini.
Il Festival ha cambiato Maldestro?
«No, anche se ora mi riconoscono per strada e qualcuno che fino a ieri non avrebbe mai puntato un centesimo su di me adesso si vanta di conoscermi. Ho preso la gara come un gioco, ho conosciuto colleghi e musicisti, ho fatto esperienza. I premi fanno bene all’autostima, ma ormai stanno su uno scaffale a casa a prendere polvere».
Ed è arrivato l’album: perché il titolo?
«Parlo di muri interni, quelli che dividono i popoli pensavamo di averli abbattuti e invece ne stiamo costruendo di nuovi, ma quelli che dividono noi dagli altri, a volte anche noi da noi stessi, stanno in piedi da sempre. Io, ad esempio, sono bloccato spesso dalla paura, dalla pigrizia, dall’automatismo che mi spinge a difendermi dal mondo».
Un disco meno «politico» rispetto a un percorso iniziato con la storia di un operaio salito «Sul tetto del Comune». Rispetto a «Non trovo le parole», un cd più intimista e pop, in sintonia con «Canzone per Federica», che procede per chiaroscuri, categorie dell’anima, affermazioni e negazioni...
«È vero, parlo di sentimenti, mi sento meno arrabbiato rispetto al mio lavoro di esordio, ma anche musicalmente più coinvolto, nonostante abbia affidati gli arrangiamenti a Maurizio Filardo. Sono meno incazzato, ma non per questo credo di vivere nel miglior mondo possibile, anzi: mi capita solo di avere uno sguardo più tenero, pur vedendo l’individualismo dilagante, i soloni dei social network...».
«Io non ne posso più» parla anche di questo, dopo aver tentato di sistemare per sempre la questione del «figlio del boss»: «Io non ne posso più... del giornalista che ancora mi chiede chi era mio padre/ ma dimmi un po’, io ti chiedo mica se tua moglie gode?», scrivi, sperando di liberare il tuo cammino dal dover parlare ancora di Tommaso Prestieri, il genitore da cui tua madre ti ha portato via, allontanandoti anche da Gomorra. Sembra la tua «Avvelenata», il tuo «Nuntereggae più».
«Proprio così, è uno sfogo di pancia, in cui me la prendo anche con la mia faccia, che non sopporto più, come con quei quarantenni che parlano con i versi di John Lennon e vivono davanti alla playstation o con chi dice di soffrire per la questione dei migranti ma poi crolla al primo mal di denti».
Riecco il tuo amato Gaber, a cui non faceva più male il mondo quando gli faceva male un dente. La passione per il signor G. e il teatro canzone tornerà nel tour al via il 12 aprile da Bologna e atteso a Napoli il 26 al teatro Bellini?
«Si, voglio scrivere dei monologhi che mi permettano di inquadrare le mie canzoni, sempre senza slogan, sempre indagando nella parte oscura dei sentimenti».
Su quel fronte, ma anche su quello più dichiaratamente politico, c’è «Sporco clandestino», dialogo tra un migrante di dieci anni e un mese e l’ufficiale che lo vede sbarcare, che dovrebbe accoglierlo a braccia aperte, ma invece è solo un terminale di una catena disumana che non conosce davvero le regole della solidarietà. «Signor capitano», dice il bimbo, «la prego, rilasci mia madre/ già il mare si è preso fin troppe valige e mio padre». E, poi, ancora: «Signor capitano dall’alto dei gradi che indossa/ saprebbe spiegare perché sono corpi da fossa»?.
«Nei tg e nei documentari il dramma dei migranti per me ha sempre gli occhi smarriti, quando non terrorizzati, dei bambini. Ricordo la paura che in me, quando ero piccino, incutevano i carri armati per le strade di Napoli. Rubare l’innocenza a uno scugnizzo di qualsiasi parte del mondo è forse il crimine più grave che possa esistere».
In più brani spunta come un dolore sordo che ti spinge a scappare da Napoli.
«È vero. Sono le radici a fotterci, a impedirci di fuggire come suggeriva Eduardo. È la speranza che in questa terra la grande bellezza possa vincere sulla grande schifezza».
 

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