La sfida della De Vito: «Moresche nera a metà»

Maria Pia De Vito con l'ensemble Burnogualà
Maria Pia De Vito con l'ensemble Burnogualà
di Federico Vacalebre
Venerdì 18 Maggio 2018, 16:32 - Ultimo agg. 17:24
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Dietro la grande bellezza di un disco come «Moresche ed altre invenzioni» c'è, per Maria Pia De Vito, la devozione verso Roberto De Simone («la sua musica ha cambiato la mia vita, mi ha spinta a studiare musica e la cultura della mia terra») e la scoperta che quelle danze in ritmo binario o ternario hanno una storia più preziosa di quello che finora si pensava: «È in uscita un librone, un tomo da seicento e passa pagine, di Gianfranco Salvatore, musicologo casertano che la musica la ama e la studia davvero, sulle origini, e la lingua, delle moresche. Spiega come mescolassero frammenti di dialetto napoletano, comicamente storpiato, con parole e frasi in Kanuri, parlata dell'area Nilo-Sahariana, dell'impero del Bornu, attuale nord-est della Nigeria», racconta la principessa del jazz italiana. «Era una forma di parodia, una specie di parlesia, una doppia presa in giro, verso il potere e verso il popolo, verso i padroni e gli schiavi: a Napoli succedeva spesso che quest'ultimi fossero liberati, che potessero sposare chi volevano, pur restando alle dipendenze. Così un moresche. Spiega come mescolassero frammenti di dialetto napoletano, comicamente storpiato, con parole e frasi in Kanuri, parlata dell'area Nilo-Sahariana, dell'impero del Bornu, attuale nord-est della Nigeria», racconta la principessa del jazz italiana. «Era una forma di parodia, una specie di parlesia, una doppia presa in giro, verso il potere e verso il popolo, verso i padroni e gli schiavi: a Napoli succedeva spesso che quest'ultimi fossero liberati, che potessero sposare chi volevano, pur restando alle dipendenze. Così un compositore del talento di Orlando Di Lasso - siano nel XVI secolo - nello scrivere per la corte si divertiva a ironizzare su ogni ceto sociale».

Il cd, distribuito da Parco della Musica Records, parte da questa ipotesi: «Che quattrocento anni prima del jazz a Napoli dei musicisti avessero inventato un suono e uno slang in cui la musica europea e quella africana si incontravano. Una figata spaziale». Inevitabile, allora, immaginare di andare oltre quell'incontro di culture: «Ai puristi, a Rinaldo Alessandrini ed altri guru del barocco, il compito della riproposta filologica. Qui, con il Burnogualà Large Vocal Ensemble, nato dalla mia classe di musica d'insieme a Santa Cecilia e poi ampliato, uniamo gli insegnamenti di De Simone con quelli dei maestri del jazz, con invenzioni che ci permettono di continuare la pratica del multiculturalismo più avanzato, grazie anche a ospiti come Ralph Towner alla chitarra, Rita Marcotulli al pianoforte, Alessandro D'Alessandro all'organetto, Giuseppe Spedino Moffa alla zampogna e Massimo Carrano alle percussioni».

L'impasto sonoro è impressionante, ma anche la capacità straniante di certe Ensemble, nato dalla mia classe di musica d'insieme a Santa Cecilia e poi ampliato, uniamo gli insegnamenti di De Simone con quelli dei maestri del jazz, con invenzioni che ci permettono di continuare la pratica del multiculturalismo più avanzato, grazie anche a ospiti come Ralph Towner alla chitarra, Rita Marcotulli al pianoforte, Alessandro D'Alessandro all'organetto, Giuseppe Spedino Moffa alla zampogna e Massimo Carrano alle percussioni».

L'impasto sonoro è impressionante, ma anche la capacità straniante di certe invenzioni poste al centro del magma sonoro. La voce solista di Maria Pia sa attraversare le trame corali senza danneggiarle, con rispetto frutto di complicità, proprio come accade tra le culture musicali chiamate alla ribalta, coinvolte in una «mezcla» che non ha paura di cedere parte della propria identità per attuare un vivificante scambio di dna. Succede così che «Tambilili», «Voccuccia de no pierzeco», «Chicchilichì», «Vecchie letrose», «O Lucia, miau miau» svelino i loro giochi onomatopeici e l'imitazione delle voci degli strumenti e degli animali in un magma di grande ricchezza ritmica e contrappuntistica tra interludi e panorami sonici che tengono insieme l'Africa e la Napoli rinascimentale. Cicli carnascialeschi e inviti al coito «vedono come protagonisti schiavi e liberti africani impegnati in serenate, corteggiamenti, danze, bisticci».

Insomma nel 1600, quattro secoli prima di «Treemonisha» di Scott Joplin, a Napoli le moresche avevano preceduto qualsiasi discorso di cultura, e di suoni, «al black». Per Gianfranco Salvatore, Di Lasso interpretò in chiave orizzontale, più che verticale, la poliritmia africana, scoperta nei suoi anni partenopei, un una città davvero, e fin da allora, «nera a metà». E Maria Pia De Vito prova a restituirci quelle moresche come pagine afro-europee, ma ancor prima afro-napoletane.
 

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