«Bitches brew», così Davis
sposò il jazz con il rock

Miles Davis, copertina "Bitches brew"
Miles Davis, copertina "Bitches brew"
di Federico Vacalebre
Giovedì 12 Marzo 2020, 12:59
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L'anno prima, «In a silent way» aveva mostrato la direzione verso quello che avremmo presto definito come jazz-rock. Radicalizzando l'ipotesi fusion di «Miles in the sky» (1968) e «Filles de Kilimanjaro» (1969) l'Uomo con la Tromba aveva scandalizzato i puristi del jazz senza approdare alle sponde free del poco amato Ornette Coleman, convinto com'era che si trattasse di un «musicidio», di una finta libertà cara alla critica bianca per annacquare il puro talento nero.
Furono, però, i bianchi ad accogliere con maggior interesse quel doppio rivoluzionario, «Bitches brew», uscito il 30 marzo 1970, cinquant'anni fa. A Miles Davis erano bastati tre giorni per registrarlo, il 19-20-21 agosto del 1969. Il festival di Woodstock e Jimi Hendrix, ma anche James Brown e Sly and the Family Stone, frullavano nella testa del genio di Alton, Illinois. Il divo del jazz cercava un nuovo sound, o forse un nuovo pubblico, i tempi stavano cambiando, o almeno i gusti musicali, e con l'hard bop i suoi contratti discografici ed i suoi ingaggi live sarebbero presto stati rivisti al ribasso. Perché non esiste solo la «poesia», c'è anche la «prosa» a spiegare perché in studio arrivarono anche piano elettrico, basso e chitarra elettrica, perché lo stesso studio di registrazione venne usato come uno strumento, quasi che dopo le session di improvvisazione influenzate dal ciclone funky, al mixer si potesse reinventare quelle «free form». Sorpassato ogni canone precedente, cercando la sintonia con i nuovi gusti giovanili ed una maggiore libertà espressiva, Davis aveva applicato un effetto wah-wah alla tromba per imitare il suono della chitarra del mancino di Seattle. Proprio come nel disco precedente, la produzione di Teo Macero (con la guida del discografico dal golden touch Clive Davis) dava ordine al disordine, trovava un senso nell'editing, nella postproduzione, trasformava brevi schegge in cavalcate furiose che vanno ben oltre la psichedelia dilagante. I critici jazz stroncarono l'lp, il pubblico rockettaro bianco lo acclamò come avanguardia da blaxploitation. Il 6 marzo 1970 Miles aveva incendiato il Fillmore East di New York dividendo il palco con la Steve Miller Band e il gruppo di Neil Young, i Crazy Horse.
Un gioco di parole quasi intraducibile per titolo. Una copertina da surrealismo militante e pop con richiamo all'Africa poi ribadito dalle note, opera di Mati Klarwein (che aveva già disegnato la cover di «Abraxas» di Carlos Santana). Suoni distorti e dissonanti, ogni tipo di riverbero o eco. Fenomenale la line-up: Jack DeJohnette e Lenny White alla batteria; Don Alias, Juma Santos e Airto Moreira alle percussioni; un illuminato Wayne Shorter al sax soprano; Bennie Maupin al clarinetto basso; i fondamentali Chick Corea, Joe Zawinul e Larry Young al pianoforte elettrico; Dave Holland al contrabbasso; Harvey Brooks al basso elettrico; John McLaughlin alla chitarra.
Si comincia con «Pharaoh's dance», la danza del faraone di Zawinul, che riparte, appunto, dal sound di «In a silent way», il «taglia e cuci» riscrive il magma creativo e caotico della registrazione. La title track dura 27 minuti e si gioca la carta dei loop, oggi così di moda. «Spanish key» sovverte e completa l'avventura iberica di «Skectches of Spain». «Miles runs the voodoo down» è sin dal titolo supremo omaggio hendrixiano. Nella ripresa di «Sanctuary» lo standard «I fall in love too easily» lascia spazio alla sezione ritmica, il fraseggio della tromba è anch'esso estremamente sul beat, pur restando ampio e liricamente imbattibile.
I puristi del jazz accusarono Davis di essersi venduto, i fan del rock lo adottarono, al Fillmore West di San Francisco aprì lo show dei Grateful Dead, l'lp vendette mezzo milione di copie, tra i maggiori successi della storia del jazz. Il «Picasso del jazz», come lo aveva definito Duke Ellington, cambiava periodo e colore, segnava una delle sue numerose rivoluzioni. Rivoluzione destinata a segnare diverse generazioni, a guidare - nel jazz, nel rock, e nella nuova terra di mezzo - la musica che verrà: i Weather Report, i Return to Forever, i Soft Machine, la Mahvishnu Orchestra...
Riascoltato cinquant'anni dopo, nella versione originale o in quelle espanse uscite nei vari anniversari, «Bitches brew» brilla ancora di luce assoluta, ha la forza tribale dei padrini del funky accanto al canto disperato della tromba più spigolosa di sempre. Oggi che il jazz è morto, e il rock pure, quell'ibrido, anzi quell'incrocio, suona immortale, almeno alle orecchie - e al cuore - di noi che siamo ancora vivi e ci siamo curati per qualche giorno, e notte, dalle paure del coronavirus alternando un vecchio, usurato, lp a ristampe su vinile pregiato e su cd, alle versioni reperibili in streaming. Cinquant'anni molto ben suonati, insomma.
 

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