Morto a 75 anni Bob Andy, padrino del suono reggae e leggenda della Giamaica

Bob Andy fotografato da Federico Vacalebre nel 2008
Bob Andy fotografato da Federico Vacalebre nel 2008
di Federico Vacalebre
Sabato 28 Marzo 2020, 20:11 - Ultimo agg. 20:30
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Bob Andy è morto l'altroieri nella sua casa nel quartiere di St Andrew a Kingston, a 76 anni. Soffriva di un tumore, aveva tenuto concerti sino al 2010. 

Ex cantante dei Paragons, era un'icona del reggae, avendo lavorato con Bob Marley, All'anagrafe Keith Anderson, è stato uno dei più prolifici autori del suono giamaicano, arrivando al successo sull'isola nel 1967 con «I got to go back home» registrato al mitico Studio One. Padrino del suono rocsteady con i Paragons fondati con Tyrone Evans e Howard Barrett preparò la strada al reggae con hit locali come »Tide is high», «On the beach», «Danger in your eyes» e «Love at last». Lasciata la band, il successo gli arrise con nuovi hit targati Studio One: «Desperate lover», «Feeling soul», «Unchained», «Too experienced», «Going home», «Feeling soul», «My time», «The ghetto stays in the mind» che testimoniava una particolare attenzione ai temi sociali, «Feel the feeling», ma anche con brani affidati ad altri artisti: «I don't want to see you cry» (Ken Boothe), ma soprattutto «Feel like jumping», «Truly» e «Melody life» per Marcia Griffiths. Con lei, sua compagna, formò il duo Bob e Marcia, che sfondò con la cover di Nina Simone «Young, gifted and black», oltre mezzo milione di copie vendite nella sola Inghilterra. Erano gli albori degli anni Settanta, lasciato Studio One, provò a conquistare il mercato del Regno Unito, ma non ci riuscì, per il boom del reggae bisognerà aspettare Bob Marley. 

Frustrato, scelse la carriera di attore, ruppe con Marcia e con il duo, che poi rifondò, incise album storici per gli amanti del genere, tornò alla grande nel 1983 con «Honey», nel 1987 gli fu affidata la direzione della Tuff Gong, l'etichetta fondata da Marley, l'anno successivo si autoprodusse un disco profondo come «Freely», anche se tra i suoi fan c'è chi preferisce il ben più antico «Songbook». 

Era una leggenda in Giamaica, un'isola di meno di tre milioni di abitanti, bellissima, povera, indipendente dal 1962, maltrattata dai due partiti che se la contendono da allora. L'isola del miracolo reggae, ritmo degli oppressi nato copiando i ritmi americani (mento, ska, rocksteady e reggae nascono «giamaicanizzando» jazz, rhythm and blues, soul e funky) e riuscito a conquistare il mondo: il rap arriva dall'arte del toaster e dei dj, che hanno fatto di necessità virtù, rinunciando ai musicisti per sparare le proprie rime sulle basi dei più economici dischi. L'hip hop arriva da qui e qui torna normalizzando e globalizzando gran parte della produzione attuale. Da qui, soprattutto, arriva Bob Marley, prima e ultima (nonostante altri exploit, da Fela Kuti a Khaled) superstar del Terzo Mondo. Il santo fumatore ha imposto il reggae al pianeta, la coscienza sociale al reggae, la religione rasta alla Giamaica.

«Mia madre pensava che la mia fosse musica del diavolo, ogni generazione ha il suo ritmo, la mia non ha perso, anche se oggi più che di rivoluzione si canta di pistole, sesso, violenza. Il reggae dà voce al ghetto, questo è quello che succede nel ghetto», raccontava a Kingston nel 2008 a chi scrive, affrontando di petto la questione della rottamazione dei vecchi maestri in favore delle giovani star, lontane dal suono «roots» e dai testi «conscious».
Ciao Andy, ciao,
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