Morto Pablo Milanes, Sudamerica in lutto: la nuova canzone ha perso il suo poeta

Cantò anche al Maschio Angioino, il 24 luglio 2000, introdotto da Gianni Minà

Pablo Milanes in una foto d'archivio con Fidel Castro
Pablo Milanes in una foto d'archivio con Fidel Castro
di Federico Vacalebre
Mercoledì 23 Novembre 2022, 07:00 - Ultimo agg. 24 Novembre, 09:30
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Il provincialismo dei mass media si vede quando muore un gigante della canzone come Pablo Milanes: ha scritto capolavori? Certo. Ha imposto, in tutta l'America Latina, un genere? Certo. Ma non si tratta di tormentoni, e ora che per musica latina si intende ben altro che la «nueva trova», possiamo archiviare la sua scomparsa in una breve, in poche righe, forse nemmeno quelle. Vuoi mettere con Suor Cristina, con una bella influencer desnuda, con i «like» di un trapper senza arte ne parte?

Il «querido Pablo», come imparammo a chiamarlo dopo un album collettivo strepitoso, ha accompagnato un sogno, quello della «nueva canciòn», che nel continente sudamericano non fu solo rinnovamento musicale ma culturale e politico. Al Cile di Victor Jara e di Violeta Parra, prima che degli Inti Illimani e dei Quilapayun, all'Uruguay di Daniel Viglietti, all'Argentina di Mercedes Sosa e Atahualpa Yupanqui, al Brasile dei dolci barbari tropicalisti (Caetano Veloso, Gilberto Gil, Gal Costa & Co), ma anche di Chico Buarque De Hollanda e di Milton Nascimento, la Cuba rivoluzionaria rispose con una stagione tutta sua, aperta probabilmente nel 1967 da un «Protest song festival» che voleva sintonizzarsi confusamente con l'altra America celebrata da Bob Dylan e compagnia cantante.

In prima fila c'erano Pablo Milanes e Silvio Rodriguez, vicini criticamente a Castro, come alle lotte di liberazione in tutto il continente e non solo: «Le idee possono essere discusse e combattute, ma non imprigionate», diceva Milanès. Al loro fianco anche Noel Nicola e Vicente Feliú.

Pablito, nato a Bayamo, capoluogo della provincia di Granma, il 24 febbraio 1943, scelse per sé uno stile melanconico, sospeso tra la canzone popolare e il jazz, i Beatles e la «vieja trova», versi del poeta nazionale Josè Martì, il lavoro collettivo con il Gruppo di sperimentazione sonora dell'Icaic dell'Avana, l'apertura ai suoni del mondo che stava cambiando.

Come non pochi cantautori egualmente militanti, ha paradossalmente toccato l'apice nelle canzoni d'amore, come l'immortale «Yolanda», capace di rinnovare linguaggio e immagini pur di fronte ad un argomento trito e ritrito: una delle più belle «love song» di sempre. Insieme, certo, con «El breve espacio en que tu no estàs», storia di un amore condiviso, di corpi nudi, di sesso, di sudore, di piacere carnale: «Restano ancora tracce di umidità/ questi odori riempiono la mia solitudine/ sul letto si disegna la tua sagoma/ come una promessa di riempire/ il breve spazio in cui tu non ci sei».

C'era, anzi c'è, nei sue brani, un'adorabile vulnerabilità, anche nei momenti più politici e assertivi: «Yo no te pido», «Los años mozos», «La vida no vale nada», «Cuba va», «Comienzo y final de una verde mañana», «Hoy la vi», «No me pidas», «Amo esta isla», «Los caminos», «Pobre del cantor», «Hombre que vas creciendo», «Yo pisaré las calles nuevamente» sono perle che hanno fatto il giro del mondo, soprattutto nei paesi di lingua ispanica.

In Italia lo si è visto poco, celebrato nel 1994 all'Ariston di Sanremo con il Premio Tenco e un disco di sue canzoni tradotte ed affidate a Cristiano De André, Rossana Casale-Grazia Di Michele-Tosca, Roberto Vecchioni, Eugenio Finardi, Yo Yo Mundi, Pierangelo Bertoli, Mimmo Locasciulli, Gino Paoli, Mau Mau. Nell'occasione Enzo Gragnaniello cantò «Años» («Anni»), storia di una coppia con il passar del tempo incapace di riaccendere il proprio amore, forse persino una riflessione politica oltre che esistenziale, Edoardo Bennato si fece accompagnare dal Solis String Quartet per «Yo me quedo/Io vivo».

A Napoli lo vedemmo al Maschio Angioino, il 24 luglio 2000, introdotto da Gianni Minà, con tanto di duetto con Gragnaniello, proprio sulle note di «Años/Anni». 

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Quando iniziò a rinnovare la canzone cubana aprendola alle influenze internazionali e reclamando allo stesso tempo l'importanza delle sue radici, il regime non lo amò. Poi Fidel lo adottò. Lui, spesso al fianco del «querido» Silvio Rodriguez, continuò a scrivere e cantare canzoni d'amore e disamore, d'orgoglio per la «patria liberata» nonostante la fine della manna sovietica e il perdurare dell'embargo americano. Deluso dall'evoluzione, anzi dall'involuzione della rivoluzione cubana, sempre critico, mai ingrato, aveva trovato ritiro e nuova fama in Spagna, dov'è morto ieri, a Madrid, sofferente da tempo di un tumore. Il 21 giugno l'ultimo concerto allo stadio dell'Havana, sempre meno rivoluzionaria, ma anche per questo assetata della sua voce, di usare come balsamo sulle ferite le note di «Yolanda»: poesia dell'amore eterno che dura un solo momento, ma almeno in quel momento è eterno, e quel momento vale una canzone così. 

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