Myss Keta: «Dietro la mascherina c'è molto di più»

Myss Keta, 2020
Myss Keta, 2020
di Federico Vacalebre
Giovedì 12 Novembre 2020, 09:30 - Ultimo agg. 10:07
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Ora che (anche) il «New York Times» si è occupato di lei il mainstream italiano si trova quasi obbligato a fare i conti con Myss Keta, electromistress star del giro voguing, queer e gay. Per il quotidiano americano «l’italian diva» ha in qualche modo anticipato con il suo look le mascherine anti-Covid, cosa che potrebbe rischiare di farla sembrare ora solo una delle tante. «Il cielo non ha limiti», il suo nuovo ep in uscita venerdì, prova a dimostrare il contrario con un pugno di brani saturati al massimo: pornohouse, sexytechno, hardcore, electroclash, digitalrap con una mano da Populous, Unusual Magic, Lilly Meraviglia, Riva.

«Sotto la mascherina c’è di più», scherza lei, il volto sempre coperto, presentando il suo lavoro via Zoom da Torre Galfa, grattacielo milanese scelto per rappresentare l’immaginario tutto vetro e acciaio da cui guardare l’azzurro a cui sarebbe dedicato il suo disco, che in realtà è terrestrissimo ed usa il meccanismo dei «doppelganger», dei doppi, per permettere alla Myss di sentirsi narratrice e non protagonista delle storie estreme messe in scena: «Dalla tragedia greca ai Tre Allegri Ragazzi Morti la maschera serviva a sottolineare quello che si diceva, a teatralizzare, a rendere protagonista la performance e non chi la propone», riflette sottolineando il suo outfit in un cocktail impazzito di tecnofilosofia glamour. «Non mi sento depotenziata dal fatto che tutti ora indossino le mascherine, fondamentale presidio di salute collettivo.

Anzi, usandola da molti anni, mi sento privilegiata nel comprenderne l’impatto sociale. All’inizio della pandemia ci spaventava, oggi ci tranquillizza, ci protegge».

La regina di Porta Venezia parla di sé in terza persona, esagerando il gioco, continuando sulla strada dei doppi sensi aperta da «Una vita in capslock» e «Paprika»: «In ogni canzone c’è una Myss Keta diversa. Arrabbiata, sguaiata, felina, misteriosa o moderna dea della caccia», dice alludendo al brano in cui duetta con Priestess. «Ho guardato ai suoni anni ‘90, alla deep house. Ispirata da Grace Jones, da Ballard e Cronenberg, dalla nuova era oscura e dalla post-verità teorizzata da James Bridle, stavolta ho osato anche con le lingue: il tedesco, l’inglese e il greco antico», che però non svela se ha studiato a scuola o meno. Meglio non dare dritte utili a identificarla: come per Liberato, il segreto della sua identità assicura la curiosità massmediatica, moltiplica i riflettori, gonfia l’hype.

Parla volentieri anche di Kamala Harris («Non condivido in pieno il suo orientamento politico, l’unica mia possibile leader è Raffaella Carrà, ma vederla alla vicepresidenza Usa è un traguardo. Che dovrebbe spingere anche noi italiane e italiani: siamo pronte, siamo pronti»), ma sembra dimenticare la centralità del sesso estremo nel suo immaginario: «Certo che è importante, come tutte le dimensioni che riguardano i cinque sensi», svicola, presentandosi alla stampa ben più vestita che nei suoi video. Un po’ poco se si pensa che la sua «Giovanna Hardcore» ha un beat mininal spezzato da accelerazioni jungle condite da gemiti. Che in «GMBH» scandisce, su beat deep house: «La mia pussy è una srl... donna forte, stronza, esigente. Io sono la boss, tu sei il mio dipendente». Che «Due» ruba il groove a «Two times» di Ann Lee per ribadire l’antica certezza che «Du is megl che uan», e non c’è dubbio di che cosa stia parlando: «Cerco un big big mac... Ne voglio due», e vai di miagolii. «Rider bitch» ci precipita nella colonna sonora del videogioco «Wipeout 2097» e nelle corse dei rider nelle città svuotate dalla pandemia, «Photoshock» racconta l’ossessione per l’immagine delle modelle, ma anche della società dei social anche se il sound è sospeso tra synth wave anni ‘80 e house anni ‘90.

Morale? «Con i club chiusi trasformate le vostre camerette in discoteche, ci vediamo appena riaprono». Così parlò Myss Keta.

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