Pino Mauro, l'ultimo fuorilegge della canzone in un docufilm

Pino Mauro, l'ultimo fuorilegge della canzone in un docufilm
di Federico Vacalebre
Domenica 5 Dicembre 2021, 10:39 - Ultimo agg. 6 Dicembre, 12:25
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Irredimibile, Pino Mauro si consegna alle riprese con una sola ipotesi e una sola tesi possibile: confermare la propria leggenda verace. Ultimo leone di cantaNapoli, Giuseppe Mauriello (così all’anagrafe) da Villaricca, 81 anni, da qualche anno è al centro di una riscoperta, «che non mi ripaga, né mai potrebbe farlo, degli anni rubatimi dall’accusa di spacciare droga, i mesi passati a Poggioreale, i due anni all’Ucciardone, i milioni spesi per difendermi, il tempo che c’è voluto, dopo l’assoluzione, per tornare ad essere richiesto su una piazza che prima mi adorava», spiega lui, pensando anche alla seconda, simile, accusa, del ‘92, all’ingaggio perso nell’«Opera buffa del giovedì santo» di De Simone. 

«Oggi mi hanno sdoganato», ride amaro Pino: nel 2007 l’incontro con i Co’Sang, mito del rap old school e pre-gomorrista in «Fin quanno vai ‘ncielo», nel 2015 il bel libro di Riccardo Rosa La sfida (Monitor), nel 2017 il concerto - e poi l’album dal vivo - «with friends» ma anche la partecipazione a «Ammore e malavita» dei Manetti bros con «Fimmina chiagni», nel 2020 ancora cinema con «Il Ladro di cardellini» di Carlo Luglio. Ora il docufilm tutto su di lui «L’ultimo fuorilegge», prodotto da Bronx Film e Movies Events, diretto dallo stesso Luglio e Carlo Gargano: sarà presentato il 9 dicembre all’Astra, poi andrà in onda il 15 dicembre su Sky Arte. 

Il titolo entra subito nel corpo vivo del racconto, che, tra una tappa e l’altra della carriera del cantante, non nasconde la nostalgia per una Napoli «d’onore», per i guappi («non erano camorristi, non c’erano uomini migliori, ti rivolgevi a loro se qualcuno aveva maltrattato una ragazza, se avevi subito un torto da un fetente»), per una stagione della canzone napoletana ormai cancellata, o forse no: «I rapper mi chiamano “zio” non solo per l’età, ma perché hanno ripreso la mia canzone, di strada e di popolo, pane di casa nostra, altro che quelle pazzielle ‘nfrancesate che parlano ‘e na parte sola ‘e Napule», spiega con il solito piglio pre-potente. «Se non avessi cantato potevo diventare io l’ultimo guappo».

Quasi come contrappasso, nella storia dell’ugola profonda che rimpiange persino don Carlo Gambino («li hanno chiamati mafiosi, ma comandavano l’America, organizzavano concerti di Frank Sinatra, Dean Martin, Liza Minnelli.

A me mi hanno portato al Madison Square Garden con Mike Bongiorno»), compare l’infamante accusa piovutagli sul capo nel 1982: «Ma come io coinvolto in un traffico di droga? Con quello che guadagnavo mi perdevo per qualche bustina?». Sdegnato (Enzo Biagi gli chiese come avesse fatto ad essere assolto: «Con le prove», rispose lui), segnato, ma mai domo, l’ultimo re veteromelodico, rivendica il suo rango, il dualismo con Mario Merola, «l’unico che poteva tenermi testa», dice di aver rifiutato «Il padrino II»: «In Italia mi aspettavano troppi soldi, non potevo restare parcheggiato in America ad attendere la chiamata sollecitata da Carmine Coppola, papà di Francis».

Dal concerto «with friends» dell’Augusteo con gli arrangiamenti di Massimo Volpe arrivano le session con Enzo Gragnaniello, Franco Ricciardi, Raiz, Lucariello, Daniele Sepe, Marco Zurzolo, il compianto Fausto Mesolella, Barbara Buonaiuto, Tony Ceecola (peccato manchi la magnifica versione in francese di «Nun t’aggia perdere» con M’Barka Ben Taleb). Luglio e Gargano seguono Pino tra matrimoni e cerimonie, camerini e passeggiate, spiano il suo pubblico e frugano negli archivi, da cui escono: il primo successo - a 78 giri - nel 1956 con «Ammore amaro», poi i Festival di Napoli, le sceneggiate di guapparia (Arnoldo Foà firma il servizio del tg sulla messinscena di «Ammore e gelusia» al teatro La Perla con una compagnia che vedeva in scena Annamaria Ackermann, Pietro De Vico, Rosalia Maggio, Luciano Rondinella e Anna Walter), i b-movie guappeschi, soprattutto le storie di contrabbandieri di sigarette in sintonia con l’hit «’O motoscafo». 

Anche qui il suo canto è in direzione ostinata e contraria, da ultimo fuorilegge non pentito, come in «L’offesa» o «Lo chiamavano Santità», che regalano i suoni western di «Deguello» e quelli morriconiani di «Per un pugno di dollari» alla (sotto)cultura del «curtiello per curtiello».

Insomma, fedele alla propria immagine, Pino Mauro fa il duro - «a ottant’anni e passa anni posso ancora spaccare il mondo», proclama - ma è tenerissimo - ed è quello che più conta - quando dà voce all’uomo che ha perso l’amata in «Nun t’aggia perdere» e sa che nessun duello, nessun coltello, nessuna vendetta potrà restituirgliela. O quando sceglie Bovio e «Lu cardillo».

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