Malika Ayane: «Nel mio Malifesto i suoni di un nostalgico presente»

Malika Ayane, Sanremo 2021
Malika Ayane, Sanremo 2021
di Federico Vacalebre
Sabato 27 Marzo 2021, 16:44 - Ultimo agg. 16:55
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Pazienza per quel quindicesimo posto all'ultimo Sanremo, Malika Ayane è forse l'unica erede possibile delle primedonne della canzone italiana, le Vanoni, le Milva, le Pravo, le Bertè, lasciando su un pianeta a parte la regina Mina. E «Malifesto», il suo nuovo album (siamo a sei), lo conferma sin dal primo brano, «Peccato originale»: «Prestami la voce, vorrei dire due o tre cose, la mia non la sento, perché ho troppi desideri e il tradimento di quello che è stato ieri è la migliore scelta possibile... Ma che diavolo abbiamo combinato, facciamo scandalo, diamoci un bacio, saltiamo a passo sincronizzato nelle pozzanghere». Le discese ardite e le risalite di un (in)canto libero, il sussurro come voce di dentro, la voce non brandita come clava minacciosa, come virtuosismo onanista, ma come ponte verso l'ascoltatore, come forma privilegiata di comunicazione senza filtri, di (auto)educazione sentimentale.

«Ti piace così», il brano presentato all'Ariston, non è il manifesto di «Malifesto», che completa una trilogia sul «nostalgico presente», per dirla con le parole di una perla della trentasettenne chanteuse («Adesso e qui», 2015): «Dove Naif scavava nella visceralità della vita, raccontandola, e Domino preferiva osservarla, qui ci sono questi strani giorni che stiamo vivendo, che hanno cambiato il mondo e il nostro sguardo sul mondo. Il gioco di parole col mio nome serve anche a ricordarmi e a ricordare a tutti la necessità di riscoprire le emozioni e l'importanza di manifestarle».

Come le canzoni tristi, «come quei turisti tristi incontrati mille volte», la Ayane scioglie un melanconico inno alla vita, nonostante tutto, cercando di trovare fiato in un flusso di parole spesso poco cantate, frutto di un lavoro compositivo a più mani, diviso con Pacifico (al suo fianco dagli esordi), Colapesce-Di Martino, Alessandra Flora, Leo Pari, Antonio Filippelli, Daniel Bestonzo e Rocco Rampino: «Dopo due dischi berlinesi, questo è un disco inciso in Italia guardando al suono franco-belga di Sebastian Tellier, della Charlotte Gainsbourg prodotta da Beck.

Pochi suoni, caldi, ma non per questo totalmente analogici», spiega lei, in forma più che mai. 

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La sensualità digitale di questo «Malifesto» nasce per pianoforte e voce, lasciando che la seconda sia protagonista assoluta, ma non invadente. Prodotto con i già citati Filippelli e Bestonzo, Malika punta su «un disco da casa e da automobile, intimista ma anche da aperitivo in cameretta, figlio dei nostri giorni di clausura coatta ma anche della voglia di superare tutto questo ed uscire nudi per tornare a vivere davvero». Ecco così che un basso Hofner scandisce il ritmo, anzi il tempo. Le corde di una chitarra (acustica più che elettrica) e di un ukulele, tappeti d'archi, un Mellotron incorniciano un capolavoro d'eleganza non snob: «Un timbro vocale è un regalo della natura. Ma devi imparare a usare la tecnica per restituire l'emotività che porti dentro». Poco importa che nessuna giuria, più o meno specializzata, al Festival abbia valorizzato il suo pezzo: «Il televoto non mi ha mai premiato e, poi, più che rincorrere il suono del momento, preferisco tirar fuori quello che davvero ho dentro e sperare che sarà ancora qui quando torneremo a fare concerti». Già, quando? «Non lo so, l'anno scorso preparavo un tour ed un evento all'Arena di Verona. Ora aspetto, magari in autunno ricomincio dalla gavetta andandomene in giro all'estero: Germania, Paesi Bassi, Francia... Cose piccole, magari non solo per i nostri amati italiani all'estero. Durante Sanremo ho scoperto che mi ascoltano persino in India».

«A mani nude» immagina incontri al pronto soccorso, in un autoscontro, vomita parole ed emozioni, scandisce ogni parola e sentimento «senza pretese, senza difese». E al «french touch» neoesistenzialista, la cantante aggiunge testi che sembrano guardare oltralpe anche per i testi, dal canto-madeleine proustiana al Rohmer di «La collezionista», a Truffaut. La voglia di dancefloor è placata dall'impossibilità di frequentarlo, quasi ad interiorizzare, a far implodere il ritmo, a rimodularlo in una voce che sa che rallentare, aspettando di esplodere al momento giusto, come in una corrida in cui non muore nessuno, come in un orgasmo senza finzione. Basta aprire una vocale, sottolineare una finale, far cantare un respiro, lasciare che un legato dia un ulteriore significato a due parole. «Senza arrossire», «Formidabile», «Come sarà», «Telefonami», «Brilla» (che autocita anche lei «Adesso e qui») e «Mezzanotte» vivono benissimo accanto alla cover di «Insieme a te non ci sto più» già presentata a Sanremo come doppio omaggio, all'autore Paolo Conte («che per primo ha scritto parole magnifiche su di me») e all'interprete originale Caterina Caselli: «Ho ascoltato per la prima volta questo pezzo il giorno che andavo al primo incontro con lei, che sarebbe diventata la mia prima discografica. Parole semplici e crudeli, lei che le cantava leggera e spietata». A voce nuda o quasi, senza pretese, senza difese. Un «Malifesto».

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