Geolier da Secondigliano a New York: «Canto il coraggio dei bambini»

Il piccolo principe del rap italiano promette eterno amore per Napoli, dove tornerà già oggi

Geolier sul tetto del mondo
Geolier sul tetto del mondo
di Federico Vacalebre
Venerdì 6 Gennaio 2023, 12:00
6 Minuti di Lettura

Per una volta iniziamo dalla fine, dall'ultima domanda.

E allora, Geolier, dove vuoi arrivare?
«Se me lo avessi chiesto prima di oggi ti avrei detto dove sto adesso».

E ora?
«Davvero non lo so. Mi sento sul tetto del mondo».

Già, perché Emanuele Palumbo, per tutti Geolier, 22 anni, 1,3 miliardi di streaming, 14 dischi di platino e 18 d'oro, il suo secondo album, «Il coraggio dei bambini», in uscita oggi, lo presenta da New York, in collegamento dall'ultimo piano del grattacielo della Sony. E dal tetto di un palazzone del Queens a fine anno ne ha annunciato gli ospiti: Sfera Ebbasta, Guè, Shiva, Lele Blade, Paky, Lazza, Takagi & Ketra.

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Perché a New York, Emanuele?
«Perché la musica che faccio, il rap, è nata qui.

Perché se riesco a prendermi l'Italia sfondando con il mio dialetto/lingua poi... penso agli States».

Coraggiosa come scelta visto il napoletano strettissimo che usi. Ma perché «Il coraggio dei bambini»?
«Sono come i bambini: senza filtri, con sincerità, sfacciato, persino senza mai paura di farmi male».

Il flow del tuo disco è spaventoso, se Marracash è il re del genere in Italia, a te tocca almeno il titolo di «piccolo principe». In «Ricchezza» c'è papà che spiega: «Nun ce vonn' e pall' affa' e reate/ ce vonn' e palle a fatica'».
«E la pura verità, alla fine dico: Papà fatica ancora nonostante sape che teng' e sord, dice ca si' o desse a magna' je, nun se sentesse cchiù n'ommo. Il mio mestiere non è la casuale salvezza dalla strada, da Gomorra, di un ragazzo fortunato. È una storia di impegno, di lavoro, di staff, e poi, solo poi, sì, di fortuna».

Punti di riferimento? Modelli?
«Drake, io sono superamericano. Marra, certo. E i Co'Sang di Vita bona».

«Sti lengue so' lame», per dirlo con un tuo verso. Uno dei pezzi più forti del disco, tra i più attesi di questo inizio anno, immaginato come un «long seller», è «Poco/Troppo».
«Quando hai poco vuoi poco, il pane a casa. Se arrivi al troppo vuoi il troppissimo, tutto ti sembra troppo poco».

Non solo un gioco di parole: «Mamma cca abbasce pare a giungla/ primma ca te faie viecchie faie o zombie».
«Nulla contro i giochi di parole, ma le mie parole non sono giochi ma schegge di vita, confessioni di vita, carne cruda».

«Poesia cruda» urlavano Luche' e Nto. «X caso» sfoggia il primo ospite, Sfera Ebbasta. Ma 18 brani non saranno un po' troppi?»
«No, mancavo da tre anni, in mezzo c'è stato il lockdown, il mondo è cambiato, anche il mio mondo è cambiato. Io no, c'è un pezzo in cui dico che potevo fare il doppio dei soldi, ma non l'ho fatto. C'è un altro brano, M vulev fa ruoss, che è una specie di fotografia della mia adolescenza, passata in quattro stretti stretti su un divano».

La famiglia, l'amicizia, l'amore sono tra i valori positivi di un lavoro che non ignora il lato oscuro della vita.
«Sono partito da P' Secondigliano, non aspettatevi da me favolette rosa».

Nelle canzoni d'amore soprattutto, spunta un uso dell'inglese accanto al dialetto più stretto. Cose come «Lonely» sono figlie di Pino Daniele?
«Siamo tutti suoi figli, nipoti, pronipoti. Come il nonno di tutti era Renato Carosone, il primo americano di Napoli. Ma, per il resto, è fuori luogo ogni paragone con due maestri, due mostri simili».

«È na giungla abbasce/ pare Brooklyn/ pare Harlem». I bambini che dovrebbero stare nei carrozzini e invece «li spingono, mantengono na casa». I soldi che possono diventare una maledizione («Money»). «Maradona» come la storia di uno scugnizziello diventato grande in anticipo.
«Come per Diego, a un certo punto ho creduto di essere quello che doveva indossare due orologi di marca, uno per ogni polso. Ma poi, come lui, grazie anche a lui, ho capito che, per fortuna, ero molto di più. Anche senza griffe».

Quelle non mancano, come gli spietati racconti del ghetto newpolitano dove anche i «muccusielli» hanno «'o fierro».
«I soldi sono il mito dei ragazzi che non li hanno. Io non vorrei essere un modello, ma visto che per qualcuno lo sono, ci metto la faccia con onestà».

Nel ritornello di «Money» c'è un coro di bambini di Secondigliano.
«Nel video si vedono i bambini del mio quartiere, i loro sorrisi, le loro speranze: ho avuto la loro forza, la loro incoscienza, la loro paure di non farcela, il loro coraggio insensato».

Prima parlavi di «I am».
«Io sono, io voglio essere, io rappresento quello che dico, quelli per cui parlo. È la storia di un criminale imprigionato per vent'anni. Ne esce con i capelli bianchi, fuori lo acclamano, ma ha perso vent'anni».

Di galera parla anche «Non ci torni più», con Paki.
«Chiediamo ad un nostro fratello di prometterci che non tornerà più dentro. Dat Boi Dee, che firma molti dei beat dell'album (ma ci sono anche Poison Beatz, Daves The Kid e Michelangelo), usa un campionamento a loop, per scandire i giorni sempre uguali di una galera».

Il tema è quello di una grande vecchia canzone dei Clash: «Stay free». Ma quanto conta per te essere creativamente libero?
«Te lo dice Emanuele Palumbo, non Geolier: se hai imparato a restare libero a Secondigliano non sarà lo showbusiness a farti prigioniero».

Nella conclusiva «Give you my love» il piccolo principe del rap italiano promette eterno amore per Napoli, dove tornerà già oggi (per l'instore alle 18.30 alla Feltrinelli Express di piazza Garibaldi) e l'11 gennaio per presentare da Foqus «Stay in Scampia», il documentario girato l'estate scorsa in occasione dell'evento «Red Bull 64 bars live». Secondigliano regna, ma non è Gomorra. 

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