Premio Tenco a Baglioni: la caduta dell'ultimo muro

Premio Tenco a Baglioni: la caduta dell'ultimo muro
di Federico Vacalebre
Giovedì 1 Settembre 2022, 08:31 - Ultimo agg. 18:49
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A qualcuno, anzi a più di uno (eredi dell'uomo di «Vedrai vedrai» compresi), il nuovo corso del Premio Tenco, quello della «canzone senza aggettivi» non piace, convinto che l'«apertura» sia in realtà una svendita degli ideali alternativi (estetici, politici, morali, sociali) della kermesse inventata da Amilcare Rambaldi, fioraio-partigiano un po' pentito di aver contribuito al lancio del Festival di Sanremo. Il passaggio da De André e Battiato a Madame e Marracash è figlio del tempo, di scelte del direttivo, ma anche dei voti dei giornalisti cooptati (tra cui il sottoscritto).

L'edizione numero 45 aggiunge motivo di scandalo per i puristi, o forse sana una vexata quaestio, quella della conventio ad escludendum dei trottolini amorosi, dei cantori dei sentimenti. Sette infatti i Premi Tenco annunciati ieri: Alice, Claudio Baglioni, Angelo Branduardi, Fabio Concato, Giorgio Conte, Mike McDermott, più Gualtiero Bertelli come operatore culturale.
Se Alice (vincitrice nel 1985 come miglior interprete per l'album «Gioielli rubati»), Branduardi, il fratello d'arte Giorgio Conte, lo chansonnier della Venezia post-crisi operaia Bertelli e il rocker americano dalla vita spericolata McDermott, si iscrivono nella tradizione del più importante premio canoro italiano, andato in passato a Ferré e Cohen, Carosone e Nascimento, Guccini e Brassens, Yupanqui e Milanes, i nomi di Baglioni e Concato non sarebbero mai apparsi nei manifesti degli anni ruggenti e barricaderi della manifestazione sanremese.

Al Tenco imperava - e non è una critica, anzi - la canzone engagé, militante, a pugno chiuso, unico bastione contro i motivetti veteromelodici o usa e getta allora in voga.

I cantori romantici di «Questo piccolo grande amore» e «Domenica bestiale» apparivano troppo borghesi, troppo pop, troppo mainstream: tutte parolacce. Caduto il muro della canzone d'autore (nel 2001 i premi a grandi esclusi come Mogol e Ruggeri, in passato sospettati anche di «destrorsità») anche per mancanza di nuove leve, il Tenco guarda avanti con le Targhe (che quest'anno premieranno Marracash, Ditonellapiaga, Simona Molinari, Elisa e Tropico, A67, Ferdinando Arnò) ma anche indietro. Baglioni, dice la motivazione, «sin dalla fine degli anni 60 ricerca attraverso la canzone quell'attimo di eterno che tramite l'arte sappia descrivere la vita, per battere il tempo a tempo di musica. Ha cantato le storie minime che sono di tutti e i grandi temi dell'uomo, quando con la sua trilogia dei colori ha cercato risposte a domande universali. Suo il disco italiano più venduto di sempre (La vita è adesso), sua la canzone del secolo (Questo piccolo grande amore) e una ricerca continua nei live. Suo il ponte umano costruito con O'Scia, a Lampedusa, lì dove serve essere presenti, dove la musica si fa canto, fiato, afflato, reale mano tesa verso l'altro».

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Meno spiazzante (e inutilmente roboante) il verdetto su Concato: «Negli anni Trenta il filone dell'allegria era composto da canzoni stilisticamente derivate dal jazz, musicalmente raffinate e caratterizzate da testi agili e smagati. Venne osteggiato dal regime, ma guadagnò progressivamente il favore popolare. Negli anni Settanta e Ottanta, le sue canzoni hanno cominciato a rappresentare una versione aggiornata di quel genere. Fortunatamente nessun regime culturale ha potuto emarginarle».

Stanco di essere, o essere avvertito, come un regime culturale, il Tenco non è roba per gli ultimi giapponesi. Forse non salverà la canzone d'autore e nemmeno la «canzone senza aggettivi», ma dal 20 al 22 ottobre all'Ariston farà la pace con gli antichi «nemici del popolo» Baglioni e Concato, riconoscendo a Cesare quel che è di Cesare. Pur sempre fiero di aver contribuito al lancio, e al successo, proprio negli anni in cui impazzavano Claudione e Fabione, di Guccini e Paolo Conte, di aver puntato su Ciampi e Vecchioni, di aver scelto la grande canzone d'autore opponendosi al disimpegno, al sanremismo, all'escapismo sonoro. Non è revisionismo, ma puro buon senso. «Strada facendo» si capiscono tante cose.
 

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