Riccardo Muti compie 80 anni: «Mia cara Napoli, riconquista il tuo primato»

Riccardo Muti compie 80 anni: «Mia cara Napoli, riconquista il tuo primato»
di Donatella Longobardi
Mercoledì 28 Luglio 2021, 12:00 - Ultimo agg. 18:01
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Riccardo Muti compie oggi 80 anni. «Sarà un semplice momento di festa in famiglia con moglie, figli e nipoti. Ho-ttanta fede che le cose migliorino in questo mondo...» nota scherzando il maestro, osannato a Chicago dove il sindaco Lori Elaine Lightfoot ha proclamato per il compleanno un «Riccardo Muti day» in onore del grande musicista, «un uomo straordinario che dal 2010 è alla guida della Chicago Symphony e ha creato connessioni tra la città e i suoi residenti grazie al potere della musica». Domani il maestro dirigerà un concerto al Quirinale con l'orchestra giovanile Cherubini in occasione del G20 della cultura (diretta Raiuno 20.30). Venerdì, poi, festa a Napoli, al San Pietro a Majella, prestigiosa scuola musicale dove si diplomò in pianoforte nella classe di Vincenzo Vitale. E sabato incontro a Scampia con i ragazzi dell'orchestra Musica Libera Tutti. Un'occasione per ritornare alle radici, agli affetti privati e culturali. 

Mentre Napoli sembra diventare sempre più uno stato dell'animo, la linfa che alimenta nostalgie e certezze. E non c'è spazio per il caso sorto col San Carlo e la cancellazione di tre appuntamenti mai riprogrammati. Gli inviti a Ravello, a Caserta, al «Teatro festival» ma non dal teatro, il «suo» teatro. Qui, a Napoli, «dove tutto è cominciato» e dove tutto sembra tornare. Un viaggio tra passato e futuro, tra memorie e voglia di trasmettere ai giovani le esperienze raccolte in giro per il mondo sul podio delle più grandi orchestre: dai Wiener ai Berliner, dalla Philharmonia di Londra a Filadelfia, dalla Scala alla Chicago Symphony.

E la storia di Napoli. Quella di una grande capitale che nel Settecento primeggiava su Londra, Vienna e Parigi. La città che formò Pergolesi e Paisiello, Cimarosa e Tritto. La città di Riccardo Muti. Nato in casa della nonna, via Cavallerizza a Chiaia 14. «Perché mia madre Gilda, da Molfetta dove mio padre era medico e viveva la nostra famiglia, giunto il momento correva a Napoli per partorire sotto il Vesuvio, nella sua città. A noi figli spiegò che un giorno, se avessimo girato il mondo e detto che eravamo nati a Napoli tutti ci avrebbero rispettato». 

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E dunque maestro lei come napoletano si è sentito «rispettato»?
«Assolutamente sì. E ne vado orgoglioso. Anche se di Napoli passano più facilmente i messaggi negativi, la camorra, la violenza, ma anche il facile folklore, la pizza, la mozzarella (che amo mangiare), il mandolino (che amo ascoltare)».

Lei però 15 giorni dopo la nascita fu portato a Molfetta.
«E lì crebbi nelle stesse aule frequentate da Salvemini, all'ombra di Castel del Monte e tra i retaggi di Federico II. Per arricchire la mia formazione mi donarono un violino, di quelli piccoli da tre quarti, usati per insegnare ai bambini. Ma a Napoli tornavo coi miei genitori e i miei fratelli ogni estate. Andavamo anche a Sorrento e alle terme di Castellammare con il treno della Circumvesuviana».

I primi ricordi?
«La casa di via Cavallerizza, un balconcino proprio sopra il portone. Ero piccolissimo, passava un signore un po' tarchiatello, vestito di nero. Mia nonna lo indicò: Guarda Ricca', quello è Pasquariello. Più tardi, crescendo, lo apprezzai moltissimo, era il re della canzone. Conobbi a Vienna un suo pronipote pianista che mi regalò un disco a 78 giri che conservo preziosamente».

Ma che rapporto ha avuto un musicista colto come lei con la canzone napoletana?
«Bisognerebbe ascoltare Pasquariello per capire come si deve cantare. L'epoca dell'urlo ha rovinato tutto. La vera posteggia è sussurro, controllo dell'enfasi. Ho amato per questo Sergio Bruni, un maestro».

E Caruso? In questi giorni del centenario si parla molto di lui.
«Era un'altra cosa. Il suo non era un urlo sguaiato. Caruso aveva Napoli nel sangue, il canto era passione pura, nostalgia, la sua voce era il golfo che brillava alla luce del sole».

Lei da sempre rivendica il primato di Napoli.
«Napoli ha un grande passato, ma anche un presente. Penso a tutte le forze e le istituzioni attive, i teatri, i musei, le biblioteche. Non c'è luogo al mondo con un tale concentrato di storia, archeologia, arte. Quanti napoletani che passeggiano nella via elegante a lui intitolata sanno davvero chi è stato Gaetano Filangieri? Goethe fu influenzato dal suo pensiero, la sua dottrina segnò la costituzione americana. E mai come in questo momento è importante ricordarlo».

Si riferisce alla pandemia?
«Certo. Perché ora più che mai bisogna mettere in campo le forze migliori, uscire dal provincialismo stupido che tende a farci piegare il ginocchio allo straniero. Napoli deve ricomporre le forze nel segno della sua storia. Penso a medici, scienziati e artisti nati qui e ora in prima fila in tutto il mondo. Penso a Roberto De Simone, uno studioso straordinario, un artista raffinato, un grande uomo di cultura cui Napoli non ha mostrato abbastanza gratitudine».

Nemo propheta in patria, è così?
«Beh, io stesso ho svolto gran parte della mia carriera fuori dall'Italia. Però mi considero un frutto della cultura napoletana, di quella napoletanità tosta e rigorosa di mia madre. Della scuola severa dei miei insegnanti. Al liceo Vittorio Emanuele, ad esempio, c'era un professore che ricordo con piacere, Domenico De Simone: alle interrogazioni chiedeva un'interpretazione di quello che avevamo studiato. Un mio compagno recitò tutto Spinoza a memoria e lui lo liquidò come spirito piatto: ha fatto egualmente una importante carriera».

E in conservatorio?
«Vincenzo Vitale è stato determinante perché mi insegnò il fraseggio musicale. Aladino Di Martino le basi fondamentali dell'armonia. Ugo Aiello il primo a tenermi a battesimo come direttore e a darmi consigli fondamentali e regole sane. E naturalmente Jacopo Napoli, dal modo in cui suonavo il pianoforte individuò in me le doti di direttore, mi portò con lui a Milano dove proseguii gli studi con Antonino Votto, a sua volta allievo di Toscanini. Ma è grazie agli insegnamenti napoletani di base che ho potuto confrontarmi con le grandi accademie europee e americane. Avevamo aule austere, le sedie di paglia e una lampadina che pendeva dal soffitto, ma tanta cultura».

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