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Riccardo Muti a Capri per il premio Faraglioni: «Ma Napoli ignora un genio come Roberto De Simone»

di Donatella Longobardi
Articolo riservato agli abbonati
Lunedì 29 Agosto 2022, 07:00 - Ultimo agg. : 18:55
5 Minuti di Lettura

È a Capri da qualche giorno Riccardo Muti, insieme con la moglie Cristina. Un breve periodo di riposo lontano dai riflettori in attesa del ritorno a Chicago dopo i trionfi del concerto di Ferragosto a Salisburgo, una volta prerogativa di Karajan e dalla sua scomparsa affidato al maestro napoletano.

APPROFONDIMENTI
Muti a Valle Cilento: «Difendiamo la cultura»
E incanta Ravello: cinque minuti ​di applausi
Al maestro il Premio Faraglioni 2022​ al Grand Hotel Quisisana

Domani gli sarà consegnato il Premio Faraglioni. La cerimonia, curata dai fratelli Damino della Capri Arte, sarà condotta da Eleonora Daniele nel teatro dell'hotel Quisisana dove il sindaco Marino Lembo consegnerà al grande direttore una scultura della Pierino Gioielli, che raffigura il simbolo dell'isola con incisa la motivazione: «A Riccardo Muti, leggenda della musica mondiale». 

Video

Maestro per lei cosa rappresenta Capri?
«È come reimmergersi nelle radici. Ho chiesto che mi raggiungano figli e nipoti. Voglio mostrare loro dove tutto è iniziato... Napoli, dove sono nato e mi sono formato, è qui di fronte... Però proprio a Capri, in questo albergo, i miei genitori vennero appena dopo il matrimonio, negli anni Trenta. È un ricordo commovente».

Anche lei in anni passati ha soggiornato spesso sull'isola con l'amico Umberto Tirelli.
«Ho bellissimi ricordi. Capri conserva testimonianze augustee e tiberiane. Ed è sempre sorprendente. L'altro giorno, passeggiando per Tragara, ho scorto una lapide in latino: Bibe - canis (Bevi - cane). Sotto c'è una ciotola scavata nella pietra. È l'abbeveratoio fatto realizzare da Edwin Cerio nel secolo scorso per i cani di passaggio. Un'attenzione particolare ai nostri amici a quattro zampe questo aver offerto loro dell'acqua in un luogo in cui l'acqua è preziosa, ma anche un grande rispetto per la lingua latina oggi praticamente sconosciuta ai più».

E ci sono sull'isola altre particolari memorie?
«Tante. Però mi piace sottolineare che proprio su uno dei faraglioni, quello detto il Monacone, c'era un faro romano che non rappresentava solo un segnale di avvertimento per le navi di passaggio, ma era un faro di civiltà, una luce per la cultura. Quella luce che inseguo da tempo...».

Lei è un ambasciatore della cultura italiana nel mondo. In questi giorni sono in uscita in dvd e blu-ray la sua esecuzione della «Missa solemnis» di Beethoven con i Wiener Philharmoniker, al festival di Salisburgo lo scorso anno, e della «Cavalleria rusticana» di Mascagni proposta con la Chicago Symphony nel 2020.
«Sì, due diverse esperienze. Per quanto riguarda Beethoven, lo studio da cinquant'anni. Prendevo la partitura e la lasciavo, la riprendevo e la rilasciavo... È la Cappella Sistina della musica, c'è una moltitudine di figure, un mondo pieno di immagini, è un lavoro talmente complesso da far tremare i polsi a ogni interprete. La Cavalleria rusticana, invece, ha un significato speciale per la Chicago Simphony, il suo celebre intermezzo era stato programmato dal fondatore dell'orchestra Theodore Thomas già nel 1891. Io ho voluto mettere in evidenza un aspetto della vera Italia che molto spesso viene volgarizzato. Mascagni è stato un eccellente compositore e questa è una grande opera scritta con un'orchestrazione perfetta. Ci sono elementi ricchi di sangue e passioni, ma non è mai volgare. Anzi, esprime dignità e senso dell'onore. Insomma, per essere compresa c'è bisogno di conoscere bene la cultura della Sicilia e del nostro Sud».

E lei certo la conosce.
«Sì, ma alla mia veneranda età, prima di queste elezioni, vivo un momento di smarrimento. Mi sembra di essere su un ring in cui si fanno punti con calci e insulti. Ma certe ignominie non giovano alla vigilia di un appuntamento così importante. Servirebbero proposte serie e fattibili per scegliere in serenità, invece...».

Invece, maestro, la cultura sembra sempre più ignorata. È così?
«Dovremmo tutti riprendere il cammino dell'insegnamento nei confronti delle nuove generazioni, farli crescere con la consapevolezza del grande patrimonio di cui siamo portatori come italiani e come napoletani. Penso a tanti bambini e tanti ragazzi e forse tanti adulti - che non conoscono i tesori che li circondano e che il mondo c'invidia. Spero sempre che da Napoli, sede di una grande civiltà, parta un segnale importante».

Per esempio?
«Roberto De Simone. Un genio ignorato dai più. Le istituzioni non gli hanno mai dato un teatro, vive in un isolamento che è un atto spregevole. Eppure lui è musicista, compositore, regista, scrittore immenso. Rappresenta il cuore di Napoli, di Napoli culturale e popolare. Quando se ne ricorderanno? E il suo patrimonio di libri, cimeli, ricerche, testimonianze, come sarà tutelato?».

Proprio ieri mattina Rai5 ha mandato in onda «Il flauto magico» di Mozart dalla Scala realizzato nel 1995: lei sul podio, regia di De Simone, scene e costumi di Carosi e Nicoletti.
«Insieme abbiamo fatto produzioni importanti non solo in Italia ma anche a Vienna, e gliene sono molto grato. Ma non aver dato il giusto peso a una figura geniale lo trovo un segnale negativo per la città».

Da napoletano lei non perde occasione per ricordare gli aspetti positivi della città, ma basta?
«Non voglio sentirmi un santo per questo. Ma mi seccano molto quei sorrisini, quelle frasi dette e non dette tese a ribadire l'ignominiosa propaganda che da sempre ci accompagna, come se solo qui avvenissero furti, rapine, imbrogli. Ecco, di fronte a queste cose viene fuori la mia anima napoletana, l'orgoglio delle radici e di una cultura antica che dovrebbe essere affidata in buone mani».

Cosa intende?
«Beh, io stesso da anni sono uno straniero che dirige una grande istituzione culturale negli Stati Uniti. E non sono contro gli stranieri in Italia. Ma penso che chi guida le nostre istituzioni culturali debba conoscere a fondo la nostra storia, la nostra cultura e sopratutto amarla. Mi viene in mente una vecchia canzone di Totò, la cantava mia madre in cucina: Stu core analfabbeta/ tu ll'he purtato a scola,/ e s'è mparato a scrivere,/ e s'è mparato a lleggere/ sultanto na parola:/ Ammore e niente cchiù'». 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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