Roger Waters, l'ultimo pacifista

Roger Waters
Roger Waters
di Federico Vacalebre
Mercoledì 31 Maggio 2017, 20:57 - Ultimo agg. 21:04
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Il passato che non passa, a 50 anni dall’esordio con «The piper at the gates of dawn», rimette al centro della scena contemporaneamente David Gilmour e Roger Waters: se il chitarrista ha dato appuntamento ai tanti orfani dei Pink Floyd per il 13 settembre, quando il suo rockumentary girato a Pompei arriverà - per un giorno solo - nelle sale, il bassista lo brucia sul tempo, mandando nei negozi venerdì 2 giugno il suo atteso nuovo album, «Is this the life we really want?».
Il titolo dall’interrogativo pleonastico - «È questa la vita che davvero vogliamo?» - riparte da 25 anni fa, da «Amused to death», l’ultimo album del rocker fedele a se stesso, ossessionato dalle sue perdite, dai suoi suoni, dagli orologi, dalle grida dei gabbiani. Rispetto all’epoca Waters vede il mondo andare ancora più in pezzi, diviso da nuovi muri, nuove ignoranze, nuove fake news. Rispetto all’epoca, la chitarra è meno al centro del sound, non c’è un Jeff Beck a rimediare all’assenza dell’eterno amico-rivale. Rispetto all’epoca, la produzione di Nigel Goldrich (Radiohead, U2) prova a dare una profondità più contemporanea ad una colonna sonora orgogliosamente giurassica.
Appena imbarcatosi da Vancouver nell’«Us + them tour», Roger srotola i suoi fantasmi personali (il padre scomparso nella battaglia di Anzio quando lui aveva pochi mesi; il nonno morto nella prima guerra mondiale quando il figlio aveva solo due anni; le quattro donne da cui ha divorziato) e le nostre ossessioni collettive: la guerra, le condizioni sempre più tossiche in cui stiamo riducendo il pianeta, la minaccia Trump... Lui prova a metterla in positivo («È un viaggio che parla della natura trascendentale dell’amore. Di come l’amore ci può aiutare a passare dalle nostre attuali difficoltà a un mondo in cui tutti possiamo vivere un po’ meglio»), ma di speranza non ne gira molto in un disco ripiegato verso il passato sin dall’incipit di «When we were young». Difficile trovare raggi di luce tra domande come «Perché i bambini vengono uccisi?», che dopo i fatti di Manchester potrebbero essere lette in altra maniera, non fosse che il Nostro ha ben presente quante giovani vite siano stroncate in Palestina - il flirt con Rula Jebreal ha radicalizzato i suoi sentimenti contro il governo israeliano - o in Siria o in qualsiasi altro angolo del mondo si combatta per degli ideali che spesso sono solo l’alibi che copre interessi di ogni tipo.
I temi di «Animals» e «The wall» sono ancora sul tappeto, Roger sfodera una voce che confessa sempre più di aver vissuto, si sente protagonista di un «Deja-vù» cosmico, snocciola il rosario dei nostri orrori quotidiani («Picture that»), invita alla rottamazione generazionale dei cattivi maestri che siamo stati («Boken bones» riparte dal coro di «We don’t need no education»), si autodefinisce «The last refugee» senza l’allegria del Manu Chao «Clandestino», e, davvero c’è poco da ridere. La title track è funerea, a suo modo radiohediana come la successiva «A bird in a gale», la donna appare come speranza in «Wait for her», ma subito muore, e un pezzo di noi con lei («A part of me died»).
Un disco antico, fedele al passato che non passa appunto, intriso di nostalgia canaglia, sfacciatamente autoreferenziale.

Difficile pretendere qualcosa di nuovo da un settantatreenne che già ha fatto la storia del rock. Forse, ci si può accontentare che, almeno lui, non abbia cambiato lato della barricata, sia restato con i sogni e gli slogan di un tempo, non abbia ridotto il rock a questione di fitness. Forse.

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