La Maschera: «Napoli-Senegal
storia di case popolari»

La Maschera
La Maschera
di Federico Vacalebre
Mercoledì 8 Novembre 2017, 13:11 - Ultimo agg. 13:18
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Roberto Colella è sceso dalla nave-gommone di capitan Capitone/Sepe ed è tornato a fare il pirata del nu neapolitan power con la sua band/ciurma, La Maschera, aggiungendo originalità al primo album, quasi revivalistico, «’O vicolo ‘e l’alleria», con «ParcoSofia», in uscita venerdì per la Full Heads e presentato oggi alle 18.30 all’Astra (ingresso libero fino ad esaurimento posti). Roberto ha 26 anni, viene da Villaricca, ma ha scoperto Sergio Bruni dopo i Led Zeppelin e Pino Daniele, ha girato l’Italia con il vascello anarcosituazionista di Daniele Sepe («maestro di suoni, gran cerimoniere di una musica che ti sorprende ogni giorno»), è finito in Senegal per ritrovare l’amico Laye Ba, appartiene al mucchio selvaggio dei nuovi cantautori partenopei, che spesso preferiscono esprimersi in gruppo (i Foja di Dario Sansone, qui ai cori, come Alessio Sollo, mentre Gnut firma la produzione, mancano Nelson, Flo e il fuoriclasse Alessio Arena).
«ParcoSofia» è un luogo non luogo, anche se la radice latina della prima parola fusa con quella greca della seconda potrebbero tradursi con un perbenistico «Moderarsi in sapienza»: «È il parco in cui sono cresciuto, è il nome delle case popolari evocate nel secondo pezzo, palazzine in cui tutti siamo cresciuti sognando un altro mondo possibile, è anche l’indirizzo fantastico dell’incontro tra Napoli e Africa che è al centro di questo disco». Se la caratteristica principale del sound rimane nella seconda linea di canto affidata alla tromba di Vincenzo Capasso, il disco è caratterizzato dall’influsso di Ba e della musica senegalese che, poi, a sua volta, nasce dall’incontro della cultura wolof con quella cubana: «Non eravamo sicuri che Laye fosse famoso come diceva, l’abbiamo conosciuto a Napoli, dove ha vissuto 17 anni, l’abbiamo raggiunto nella sua terra, da cui non riusciva più a partire e ci siamo ritrovati intervistati dalla tv di Youssou N’Dour, molto più che una celebrità da quelle parti, e circondati da ragazzi che volevano soldi da noi, che pensavano che fossimo ricchi, come pensavano dovesse essere ricco Ba, che ora è tornato a Napoli, e vive di musica», racconta il leader di La Maschera.
«Chesta è Napule e non è Africa», canta Colella con l’amico africano e un contorno di strumenti/colori etnici confermato da «Case popolari», che affida al ritornello l’apertura melodica che è l’altra faccia del cd, figlia delle ballad malate di saudade del Pino Daniele di «Lazzari felici», come confessano spesso il violoncello di Michele Arcangelo Caso e il violino di Michele Signore. Scoppi di energia, armonie aperte e contagiose, magari sottolineate da un glockenspiel, da una melodica, dal sax di Sepe, si alternano a dimensioni più intime, ad atmosfere delicate. Il dialetto suona bene, accompagna acquarelli e tranche de vie che non sanno sempre trasformarsi in storie, se si esclude «Palomma ‘e mare», una curiosa storia vera: «Mio nonno era andato a pesca e, tirando su la lenza, aveva catturato un piccione. Non ne voleva sapere niente, mi fece portare l’uccello a casa, perché fosse cucinato in brodo. Ma nonna lo liberò: lui rimase fermo per un giorno prima di volare via. Anni dopo quella storia mi è venuta in mente e mi è servita per raccontare come spesso di fronte alla libertà, all’amore, alla rivoluzione, i limiti ce li mettiamo da soli». In fondo, è lo stesso argomento di «Signora vita» o di «Binario 23» con il suo ladro di sesso, mentre «Serenata» è un ritorno alla tradizione, «Salam aleikum» una concessione ecumenica e «Dimmane come ajere» si fa ballare. La Maschera cresce bene, prima o poi potrebbe mostrare il volto meno buonista della nuova canzone napoletana: ce n’è bisogno.
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