Ghemon: «Soul in Italia, si può»

Ghemon 2020
Ghemon 2020
di Federico Vacalebre
Venerdì 24 Aprile 2020, 21:30
5 Minuti di Lettura

Mario Musella e Pino Daniele sarebbero contenti di lui, Neffa lo è. «Scritto nelle stelle», in uscita oggi dopo essere stato rimandato causa pandemia, è un gran bel disco di nu soul italiano: storie intime, spesso nude e crude, una voce di miele ma perennemente sull’orlo di una crisi di nervi, groove, profumo di r’n’b, ritmi sospesi tra funky, disco music e soulful house. Novello nero a metà, Ghemon, all’anagrafe Giovanni Luca Picariello da Avellino, 38 anni, è un Ufo nella scena italiana, schiacciata sull’intronata routine del trappar leggero (Panella ci perdoni per l’appropriazione indebita), dell’indie sotto vuoto spinto.
Hai cancellato il tour che doveva partire il 4 aprile da Napoli, 300.000 euro di danni, qualcuno ha calcolato. Hai preso tempo per vedere che cosa succedeva, poi hai deciso che... era «Scritto nelle stelle», hai deciso di esserci mentre i tuoi colleghi preferiscono star lontani dal mercato e giocare allo streaming da casa. Un modo per dire: Ghemon c’è? In fondo aspettavamo questo album dal Sanremo 2019, quello di «Rose viola».
«Mai avrei pensato che questo disco potesse uscire così, in un periodo simile. Ma sono campano, non mi è mai mancato lo spirito di arrangiarmi. Così ho capito che era tempo di far sentire queste canzoni, il ragù - riecco le mie radici - aveva cotto il tempo necessario, bisognava solo servirlo a tavola».
Un ragù soul, ricetta rara in Italia.
«È vero, mi sento quasi un divulgatore scientifico di un suono che tutti dicono di amare, ma poi nessuno pratica».
Come Neffa, sei passato dal rap alla canzone venata di black culture. Magari ci si aspettava da te una svolta trap.
«C’è melodia, potevo trappare, ma non ne avevo voglia. Con Neffa ci siamo sentiti, lui ha aperto una strada ideale, io ho seguito il mio percorso».
«Ho imparato sempre a mie spese come va il mondo, certe volte devo mettere i confini a chi mi gira intorno e la folle idee che il dolore sia quasi un mio confort è un banale clichèt», canti. I testi sono spietati.
«Canto una quotidianità intima, relazioni, riflessioni, addii senza rabbia».
Sui social network il tuo tono è ben più (auto)ironico, spesso sarcastico.
«Lì posso dire che voglio festeggiare la fine della quarantena restando un paio di settimane in riposo a casa, ma in canzone no, non sarei capace di mettere in musica una cifra ironica. La comunicazione in rete è veloce, ti vendi per una battuta, un gioco di parole».
«Due settimane» è una canzone antieroica, racconti la voglia di lasciarti andare sul divano, altro che movida e party time.
«Metto la vita quotidiane nei testi, non tutti i giorni è tempo di ragù, non tutti i sughi sono uguali».
Ancora un’immagine gastronomica. E «Champagne»?
«Dal vivo volevo introdurla con una gag-tributo a Peppino Di Capri, anche se il mio brano non c’entra nulla con il suo classico».
Con il tour sono saltati anche gli instore. Anzi no.
«Mi sono inventato l’instore digitale. Ogni fan che ha acquistato o acquisterà entro ieri il disco su Music First, riceverà una mail con le istruzioni personalizzate per accedere al suo turno: ci faremo anche il selfie on line».
Che succederà al tuo mestiere finito il lockdown?
«Non torneremo a fare concerti tanto presto, forse solo nella primavera prossima».
La musica è finita? Siamo condannati a concertini con chitarrine sul web?
«No, i live da casa sui social sono una parentesi per restare in contatto, oltre che tappe dell’eterna caccia al like, di conferma del proprio ego. Potremmo fare veri concerti su piattaforme create ad hoc, con offerta all’entrata e la possibilità per lo spettatore di contribuire a scegliere la scaletta. Ci sto lavorando con il mio team».
Non tutto è perduto, insomma?
«No, però per qualcuno è più perduto che per altri. Penso al mondo dello spettacolo, dove ci siamo noi sotto i riflettori, e, dietro le quinte, tanti professionisti che nessuno conosce e che sono a casa senza stipendio, contributi, aiuti. Bisogna rilanciare questo settore, considerare la cultura, anche le canzonette, strategiche. Gli artisti sono i primi a dover spiegare che non è tutta apparenza, che dietro c’è fatica, lavoro, obblighi, scadenze, famiglie. È ora di sedersi al tavolo tutti insieme per avere risposte chiare: ci serve un sindacato, un consorzio, un’associazione. Ma per essere credibili dobbiamo essere in tanti. E sbrigarci».
In passato hai parlato della tua lotta contro la depressione.
«È un problema di cui si parla sempre troppo poco e che subisce lo stigma sociale.

Ma mai come ora il supporto psicologico è urgente e necessario per superare la crisi che non è solo sanitaria o

© RIPRODUZIONE RISERVATA